Condannati a un futuro incerto


A quindici mesi dalla presa del Potere, Kabila si trova a gestire un conflitto ormai di portata regionale.

Nella latitanza delle potenze occidentali, emerge una classe dirigente che fa un uso cinico e spregiudicato dei conflitti.
La sofferenza e l’afasia della chiesa locale.
 
La ridefinizione degli equilibri politici dell’Africa centrale non è ancora compiuta. Il ricambio delle élites politiche sta avvenendo attraverso processi sanguinosi e perduranti nel tempo. In alcuni casi, poi, esso è ancora lontano (cf. Regno-att. 2,1997,7).
 
La presa di potere in Ruanda del Ruandan Patriotic Front (RPF) nel 1994 e il genocidio della popolazione tutsi; l’estensione della zona d’influenza ruandese contemporanea allo sgretolarsi del regime di Mobutu e il genocidio dei rifugiati ruandesi hutu: tutto ciò costituisce l’inizio di un processo che almeno idealmente doveva trovare in Kabila un punto di stabilità per l’ex-Zaire. Per la sua sostanziale incapacità politica, quest’ultimo è diventato un alleato ingombrante, e soprattutto non in grado – questione della massima importanza invece per i vicini Ruanda, Burundi e Uganda – di garantire la sicurezza nei propri confini e la stabilità della regione.
 
L’alleanza variegata che viene chiamata dei “ribelli”, dominata dai gruppi etnici tutsi zairesi – i banyamulenge –, da ex militari mobutisti alleati a Ruanda, Burundi e Uganda, cui sono contrapposti, al fianco di Kabila, Angola, Zimbabwe e Namibia, ha dato inizio, il 2 agosto scorso con il bombardamento di Goma, a una guerra in realtà già in corso da mesi nell’instabile regione del Kivu (confinante col Ruanda e col Burundi). Inoltre, i metodi di governo di Kabila, troppo simili a quelli del predecessore Mobutu, avevano già aperto la strada a un forte malcontento popolare (cf. Regno-att.12,1997,364).
 
Ciò che fa di questo un conflitto – ad appena 15 mesi dalla conclusione del precedente – cui la popolazione reagisce con rassegnazione è la novità nella combinazione delle complicate alleanze che lo sostengono. Sembra andare in secondo piano il chi si allea, rispetto al che cosa si aspetta: il far emergere nuovi rapporti di forza nell’area subsahariana.
 
Anche nel modificarsi della posizione sudafricana rispetto al conflitto vi è una conferma. Agli inizi Mandela ha ostentato una posizione di neutralità come presa di distanza da Kabila; il negoziato doveva essere l’unica soluzione possibile e, anzi, Mandela aveva patrocinato un incontro – poi fallito – tra le parti a Pretoria a fine agosto (22-23).
 
Diversamente, nel corso del vertice dei paesi non allineati (il XII, tenutosi a Durban dall’1 al 4 settembre) – all’interno del quale si è tenuta anche una riunione degli stati della South Africa Development Community – la sua posizione si è modificata, dichiarando giustificato l’intervento armato di Angola, Namibia e Zimbabwe, poiché chiamati a difesa dell’integrità territoriale del Congo.
 
Gli stati membro della SADC hanno persuaso Mandela che difendere con le armi Kabila garantisce oggi la stabilità regionale meglio del negoziato, in un momento di sostanziale latitanza diplomatica, soprattutto occidentale, in Africa: la prima dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU è del 31 agosto. Mandela, come gli altri stati, ha a cuore la ripresa economica della regione, senza l’indebito allargamento della zona d’influenza di Ruanda, Burundi, Uganda, appoggiate dagli USA grazie alla latitanza della Francia.
 
Ma la dissoluzione delle linee “classiche” di alleanza, che avevano costituito durante il conflitto contro Mobutu una sorta di ossatura ideologica a giustificazione della guerra, ha fatto emergere la realtà dei fatti: centinaia di migliaia di vite umane distrutte (la Commissione d’inchiesta dell’ONU per l’eccidio contro i 180.000 rifugiati hutu ruandesi perpetrato tra il novembre 1996 e il maggio 1997 nell’est dello Zaire, ha accertato le responsabilità sia di Kabila sia del Ruanda, come dichiarato nel rapporto finale presentato alla fine di giugno), un’economia inesistente – se si eccettuano le miniere per l’estrazione del cobalto e dei diamanti nel Kasai attualmente molto attive e gestita da una joint venture anglo–americana –, una vita politica palesemente muta.
 
Senza sapere dove
 
“Abbiamo visto passare quelli che scappavano con le loro uniformi dell’esercito. Sono passati attraverso i nostri villaggi pacifici in una scena fatta di saccheggi, brutalità, stupri e fucilazioni casuali … Abbiamo visto un altro gruppo passare e ci è stato detto che erano ruandesi, ex-soldati, ben armati e ben equipaggiati e molto violenti. Essi scappavano per paura di venire completamente sterminati. Poiché non avevano futuro essi hanno sfogato la loro frustrazione su di noi. Hanno ucciso, stuprato, rubato… Abbiamo visto quello che non ci saremmo mai aspettati: una marea umana di uomini, donne, bambini, scheletri in cammino, completamente esausti. Lungo la strada si poteva vedere cadere coloro che non ce la facevano più, e la pietosa processione continuava perché essi avevano la morte alle calcagna. Quello che abbiamo visto ha toccato molti di noi nel profondo e abbiamo pianto per quelle vittime del genocidio che continuavano ad andare, senza sapere dove. E ci siamo chiesti: perché?” (The Tablet 13.6.1998, 764). È il perché del vescovo di Basankusu, mons. I. Matondo, espresso in un’accorata lettera pastorale all’indomani della guerra del 1996-1997.
 
Un perché che si ripete oggi nella diocesi di Uvira, a Kasika, nel nord-est, dove il 24 agosto scorso i banyamulenge per rappresaglia hanno ucciso, secondo le fonti dell’agenzia missionaria MISNA, 633 persone, tra cui un sacerdote – S. Bwabulakombe –, un seminarista – E. Malenga – e suor A. Kagarabi, G. Lugolo e G. Nyagira, della congregazione Figlie della risurrezione. Il papa nell’udienza generale di mercoledì 26 agosto ha affermato: “che il loro sangue innocente possa contribuire a guarire i cuori malati di odio e di vendetta. Voglia Dio accogliere nella sua misericordia questi nostri fratelli e sorelle che hanno sofferto le angosce di una morte tanto violenta e ingiusta”.
 
I 571 missionari italiani in Zaire (217 religiosi, 315 religiose, 10 fidei donum e 24 laici) sono rimasti per una presenza che vuole essere una testimonianza di solidarietà con la popolazione nella povertà, dopo che i ripetuti saccheggi durante le guerre hanno spogliato le missioni. La loro voce è la pura presenza.
 
Kinshasa e Kisangani – la capitale e la seconda città del paese – sono lo specchio dell’attuale situazione: la prima in mano a Kabila, grazie al decisivo aiuto fornito il 22 agosto dall’aviazione e dai carri dell’Angola – per quest’ultima l’intervento rappresenta l’occasione migliore per risolvere la perdurante battaglia con la guerriglia dell’UNITA –; ma i viveri scarseggiano e manca l’elettricità. La seconda in mano ai ribelli, riuniti nel Rassemblement congolais pour la démocratie (RCD), vive un’apparente calma, dicono i missionari pur tra i saccheggi dei ribelli stessi e i bombardamenti delle forze alleate con Kabila. Tra le due città, la guerra.
 
Le difficoltà della chiesa
 
A livello di conferenza episcopale, dopo la lettera pastorale – con un tono in certi passaggi trionfalistico – del giugno 1997 (Regno-att. 22,1997,497; Regno-doc. 17,1997,562ss) non vi è stata alcuna presa di posizione: secondo alcuni osservatori, a causa delle forti divergenze interne che non permettono una presa di posizione comune.
 
Certo è che dopo l’agognata pace portata dall’avvento di Kabila, i rapporti tra la nuova classe dirigente e la Chiesa cattolica non sono stati facili. Nella diocesi di Kananga, nella notte tra l’8 e il 9 aprile scorso è stata uccisa suor A. Desrumeau, belga, delle suore della carità di Heule, nel tentativo di difendere la scuola e la comunità di suore che essa dirigeva. La diocesi ha depositato una denuncia contro lo stato e indirizzato una protesta al governatore della provincia (Kasai occidentale). Sempre in aprile il viceministro per gli interni, comandante Munene, ordina la chiusura dell’emittente cattolica Amani, di proprietà della diocesi di Kisangani, in quanto “ha oltrepassato i suoi obiettivi, facendo collegamenti con emittenti internazionali e trasmettendo commenti politici sia di tali emittenti sia propri”. Mons. Monsengwo, arcivescovo di Kisangani, ha protestato per l’illegalità dell’atto. Qualche tempo dopo, viene pubblicata una lista di 250 persone alle quali non sarà consentito candidarsi alle prossime elezioni perché corrotte o colpevoli di crimini contro l’umanità: tra esse, oltre all’oppositore d’antica data E. Thsisekedi, mons. Monsengwo.
 
Ancora, il missionario che fu uno dei testimoni principali dell’eccidio degli hutu ruandesi e che con la sua testimonianza ha dato avvio all’inchiesta dell’ONU, è stato costretto a lasciare il paese di nascosto, dopo essere fuggito dalle carceri dei servizi di sicurezza.
 
Agli inizi di maggio (il 3) p. A. Muholungu Malumalu, vicerettore dell’Università cattolica di Grabeu, viene arrestato a Butembo dai militari; il parroco della missione di Lukanga (diocesi di Butembo), un prete fidei donum italiano, viene insultato e trattenuto da militari entrati nella missione. I parrocchiani vengono picchiati. A Kinshasa il 7 giugno viene ucciso un carmelitano congolese, J.F. Kamaragi Mandro e feriti altri religiosi. Il 27 luglio un gesuita, p. M. Albecq viene ucciso presso la missione di S. Ignazio a Brazzaville.
 
Sul nuovo regime instaurato da Kabila ha preso posizione l’agenzia semi-ufficiale della conferenza episcopale Documentation et information africaines (DIA), che in un editoriale pubblicato nella settimana di Pasqua affermava: “la ricostruzione del paese può essere fatta solo con comportamenti nuovi”. L’attuale governo “pratica il terrorismo di stato, la confisca delle libertà individuali, la concentrazione di tutti i poteri nelle mani di un uomo solo, favorendo l’idolatria”.
 
Non vi sono state invece dichiarazioni dopo lo scoppio della guerra, neppure da parte della Conferenza episcopale. L’unica posizione ufficiale è quella del cardinale di Kinshasa, mons. F. Etsou, il quale dopo un messaggio del 9 agosto, in cui invitava “tutti e tutte a difendere a ogni costo il nostro paese, la Repubblica democratica del Congo e la sua integralità”, ha pubblicato il 26 agosto una lettera pastorale “che è un SOS”. Di fronte a una situazione caotica il primo dovere è quello di “continuare a difendere a ogni costo il nostro paese, la sua integrialità e il suo popolo (…) facendo di tutto per buttar fuori il nemico”. Tuttavia, facendo ciò, non ci si deve lasciare “dominare dai sentimenti di odio e di vendetta contro il popolo ruandese e ugandese in generale e in particolare contro i ruandesi e gli ugandesi che abitano il nostro paese da molti anni. Cristo ci comanda d’amare perfino il nostro nemico”. Ci si riferisce qui alla vera e propria caccia all’uomo che sia i militari sia parte della popolazione di una Kinshasa in stato d’assedio e senza elettricità hanno lanciato contro i tutsi. La benché minima somiglianza fisica al tratto cosiddetto nilotico è motivo per essere picchiati, uccisi, arsi vivi. I più fortunati vengono portati in carcere.
 
In questo clima, Kabila all’inizio del conflitto, l’8 agosto, ha chiamato ad arruolarsi i giovani, alcuni dei quali – migliaia – sono accorsi nello stadio della città. Nello stesso giorno tramite la televisione, alcuni leader musulmani, protestanti e kimbanguisti hanno invitato la popolazione a partecipare a celebrazioni per il sostegno del governo nella difesa del paese e per invocare la pace (MISNA 10.8.1998).
 
Anche il card. Etsou ha invitato a “raddoppiare le preghiere” perché sia trovata presto una soluzione di “negoziazione con l’aggressore (…) Sua santità il papa Giovanni Paolo II, avendo saputo che sono malato, mi ha telefonato e mi ha assicurato la sua preghiera e la sua benedizione” estendendola “a tutto il nostro paese”. Il papa ha infatti seguito da vicino la vicenda del paese, intervenendo più volte per chiedere la fine del conflitto.
 
Nell’Angelus del 9 agosto il papa ricorda che “nella Repubblica democratica del Congo hanno ripreso a parlare le armi” –; in quello del 23 rivolge “un accorato appello alle parti in lotta affinché non privino i civili dei mezzi necessari alla vita ed evitino atrocità e massacri, saccheggi e depredazioni. Chiedo inoltre (…) di privilegiare il negoziato. Esso è via umana, ragionevole, ancora possibile, capace di risparmiare nuove lacrime e lutti, condurre a una soluzione pacifica e duratura e impedire al conflitto di estendersi oltre le frontiere del paese”. Nella visita ad limina della Conferenza episcopale dello Zimbabwe, il 4 settembre, il papa ribadisce la necessità di un negoziato a fronte di tante sofferenze patite dai “civili innocenti sottoposti a una terribile oppressione e a saccheggi, privati del necessario per vivere e condannati a un futuro incerto”.
 
articolo tratto da “Il Regno”