La storia del conflitto

L’indipendenza venne proclamata nel 1960, con Joseph Kasavubu presidente e Lumumba primo ministro. Di lì a poco Moisés Chombe, già primo ministro del Katanga, diede inizio a un movimento secessionista.

Il Belgio inviò paracadutisti e le Nazioni Unite intervennero con una “forza dipace”. Kasavubu attuò un colpo di stato consegnando Lumumba ai mercenari belgi che difendevano i secessionisti; il leader indipendentista fu assassinato. La guerra civile continuò fino al 1963; la secessione non si consumò, ma in compenso Chombe, difensore degli interessi neocoloniali, venne nominato primo ministro. Con l’aiuto dei mercenari e dei paracadutisti belgi e l’appoggio logistico nordamericano, Chombe sconfisse le forze rivoluzionarie. Nel 1965 venne obbligato a rinunciare in favore di Kasavubu e quest’ultimo a sua volta venne deposto poco dopo dal comandante dell’esercito, Joseph Desiré Mobutu, l’uomo adatto a imporre l’ordine secondo le transnazionali presenti nel paese.
Proclamando la dottrina della “autenticità africana”, Mobutu cambiò il nome del paesein Zaire e il proprio in quello di Mobutu Sese Seko. La nazionalizzazione del rame, decretata nel 1975, favorì la borghesia nazionale e la burocrazia statale.
Lo Zaire fornì appoggio al Fronte Nazionale di Liberazione dell’Angola (FLNA) per combattere l’MPLA di Agostinho Neto. Mobutu sostenne anche i gruppi secessionisti della provincia petrolifera angolana di Cabinda.
Nel frattempo, in Zaire proseguiva la guerriglia. Le grandi offensive scatenate dal Fronte di Liberazione del Congo tra il 1978 e il 1979 vennero contenute grazie all’intervento dei paracadutisti francesi e belgi e delle truppe marocchine ed egiziane, appoggiate logisticamente dagli Stati Uniti.
In seguito alle pressioni internazionali, alla fine del 1977 vennero indette elezioni parlamentari e conferiti alcuni poteri alla nuova Assemblea Legislativa.
Fino ad allora lo Zaire era il maggiore esportatore mondiale di colbalto, il quarto produttore di diamanti e tra i primi dieci produttori del mondo di uranio, rame, manganese e stagno. Tuttavia, la corruzione imperante nell’amministrazione portò l’economia sull’orlo di una grave crisi, con un’altissima disoccupazione.
Tra il 1980 e il 1981, le grandi potenze occidentali decisero di intervenire per garantirsi il controllo dei grandi giacimenti minerari strategici del paese. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) aiutò lo Zaire che rinegoziò il debitoestero, imponendo drastiche misure per ottenere un livello minimo di moralizzazione interna. L’economia dello Zaire passò di fatto sotto il controllo diretto dell’FMI, i cui esperti da Kinshasa supervisionavano la contabilità del paese.
Verso la fine del 1982, le statistiche cominciarono a mostrare indici positivi, alleggerendo la pressione dei creditori internazionali e degli investitori europei, nonostante la situazione economica peggiorasse per gli zairesi proprio a causa delle misure di austerità imposte dall’FMI.
Nell’aprile 1981, il primo ministro Nguza Karl i Bond lasciò l’incarico chiedendo asilo politico al Belgio, denunciando gli arbitri del presidente Mobutu e presentando sé stesso agli europei e ai nordamericani come una “alternativa dignitosa” alla corruzione dilagante.
Nelle elezioni del luglio 1984, Mobutu ottenne il 99,16% dei voti; nel febbraio 1985 venne firmato un patto di sicurezza con l’Angola.
Il governo dell’Angola denunciò che 15 milioni di dollari di aiuti erano arrivati dall’amministrazione Reagan all’FLNA attraverso il regime di Mobutu, essendo lo Zaire un effettivo deposito di armi del Fronte stesso.
Nel giugno 1989, nel corso di una visita a Washington, Mobutu ottenne un prestito di 20 milioni di dollari dalla Banca Mondiale. Il capo dello stato era arrivato nella capitale statunitense preceduto da una importante vittoria diplomatica: aveva ospitato nella sua città natale, Gbadolite, un vertice storico in cui il presidente dell’Angola, Edoardo dos Santos, e il capo della controrivoluzione dell’UNITA, Jonas Savimbi, si erano accordati per il cessate il fuoco come prima tappa per una soluzione pacifica del conflitto in corso.
Nell’aprile del 1990 Mobutu, per anticipare un processo di democratizzazione che considerava imminente, decretò la fine del sistema monopartitico, introdusse il pluralismo sindacale e promise libere elezioni entro un anno. Centinaia diassociazioni e gruppi politici chiesero di essere legalizzati. Le autorità si spaventarono e il 3 maggio Mobutu dichiarò che nessun partito sarebbe stato legalizzato e che prima delle elezioni sarebbe stato necessario modificare la Costituzione, in quanto il capo dello stato desiderava “preservare la sua autorità senza esporsi a critiche”.
Gli studenti iniziarono una serie di dimostrazioni in tutto il paese, in particolare all’università di Lubumbashi (capoluogo della Provincia di Shaba). All’alba dell’11 maggio i soldati attaccarono la zona universitaria; oltre 100 studenti furono assassinati. I sopravvissuti fuggirono, chi in altre province e chi in Zambia. Il massacro di Lubumbashi provocò un’ondata di proteste e scioperi.
Nell’ottobre 1990, cedendo alle pressioni interne ed esterne, Mobutu decise una nuova “democratizzazione”, autorizzando il pluralismo politico, questa volta senza preclusioni. La maggior parte dell’opposizione (riunita nella Sacra Unione, un fronte di nove partiti tra cui i quattro maggiori), in dicembre chiese le dimissioni di Mobutu e la convocazione di una Conferenza Nazionale per decidere il futuro politico dello Zaire senza l’intervento del presidente.
Nel settembre 1991, Mobutu affrontò una nuova e imponente sollevazione popolare che provocò decine di morti e l’intervento della Francia e del Belgio, che inviarono varie centinaia di soldati per proteggere il rientro dei connazionali residenti nel paese.
Nel novembre 1991 la Sacra Unione costituì un “governo ombra” appellandosi alle Forze armate affinché abbattessero il regime di Mobutu.
All’inizio del 1992 iniziò il suo cammino la Conferenza Nazionale, voluta dall’opposizione, ma nel febbraio dello stesso anno il primo ministro Karl i Bond la sospese, provocando il sollevamento di una parte dell’esercito che si impadronì della radio e chiese le dimissioni di Mobutu. Ma in poche ore le truppe fedeli al presidente ristabilirono la situazione e ci furono molte decine di morti e feriti.
La Comunità Europea sospese tutti gli aiuti finanziari allo Zaire, subordinandoli alla riapertura della Conferenza Nazionale.
Nel marzo 1992 Mobutu annunciò la riapertura immediata della Conferenza Nazionale, dopo essersi riunito con il suo presidente, l’arcivescovo Monsegwo Pasinya. La Conferenza nominò alla carica di primo ministro Etienne Tshisekedi, leader della Sacra Unione, al posto di Nguza Karl i Bond.
L’arcivescovo Monsegwo Pasinya venne ricevuto a Washington dal segretario di stato nordamericano, James Baker, e dalla Commissione Esteri del Senato. Quei colloqui resero evidente il discredito di cui godeva il regime di Mobutu.
Nel corso del 1992 ripresero vigore i conflitti interetnici. Nella regione di Shaba, a sud-est, la violenza scoppiò dopo la destituzione di Nguza, quando esponenti del clan lunda cui l’ex primo ministro apparteneva, attaccarono la comunità luba di cui faceva parte Tshisekedi. Morirono duemila persone e migliaia di luba lasciarono la regione di Shaba a causa della distruzione delle loro abitazioni; le forze di sicurezza intervennero varie settimane dopo l’inizio degli scontri.
Il governo si appropriò dei proventi delle imprese petrolifere, giustificando la mossa con la necessità di evitare il tracollo dell’economia.
Nel dicembre 1992 il primo ministro decretò la fine del corso legale dello Zaire, a causa dell’inflazione galoppante, mettendo in circolazione una nuova moneta. Mobutu ordinò il pagamento dei salari arretrati dell’esercito ancora con la vecchia moneta.
All’inizio del 1993 si registrarono scontri tra una parte dell’esercito – scontento per aver ricevuto moneta senza valore – e la guardia personale di Mobutu. Gli scontri causarono mille morti a Kinshasa; la capitale fu teatro di saccheggi, incendi e assalti da parte dei soldati.
Il 24 febbraio le truppe corazzate del presidente accerchiarono l’edificio dell’Alto Consiglio della Repubblica, un organo di transizione voluto dalla Conferenza Nazionale, costringendo gli 800 membri a dare nuovo corso legale alla vecchia moneta rimessa in circolazione da Mobutu.
Stati Uniti, Belgio e Francia si rivolsero a Mobutu pretendendo un impegno a spartire il potere con il governo provvisorio di Tshisekedi. Per tutta risposta, Mobutu destituì il primo ministro e all’inizio del 1993 Faustin Birindwa venne nominato al suo posto.
Poiché non era stato nominato dal presidente, Tshisekedi non ebbe mai un potere effettivo di controllo dell’esercito e degli organi dello Stato. Da parte sua Mobutu manteneva il controllo della situazione da Gbadolite, alla frontiera con la Repubblica Centrafricana, e per mesi non tentò di tornare a Kinshasa.
Il Dipartimento di Stato americano suggerì a Francia e Belgio di attuare il blocco dei beni di Mobutu, una misura che non avrebbe pregiudicato l’economia del paese e senza effetti negativi per gli affari europei e nordamericani. Mobutu era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio personale superiore ai 4 mila milioni di dollari.
Nell’est dello Zaire si creò un focolaio di tensione per l’afflusso massiccio di rifugiati dal Ruanda a causa del genocidio in corso in quel paese.
L’arrivo al potere in Ruanda della guerriglia del Fronte Patriottico Ruandese portò vari paesi occidentali come la Francia a diminuire la pressione nei confronti di Mobutu, di nuovo considerato un potenziale alleato in seguito alla vittoria dei “tutsi anglofoni” nel paese confinante.
La tensione aumentò nel 1996 dopo che le milizie ruandesi, appoggiate dai soldati zairesi, cominciarono un’opera di “pulizia etnica” nella regione est del Masisi, uccidendo e deportando i tutsi che vivevano da generazioni in questa zona dello Zaire.
Alla fine dello stesso anno, il conflitto tra i gruppi armati tutsi e i resti dell’esercito ruandese (a maggioranza hutu) si trasformò in una vera e propria guerra civile. Il regime di Mobutu fu seriamente minacciato nel momento in cui varie fazioni dell’opposizione strinsero un’alleanza diretta dal leader guerrigliero Laurent Kabila. Convalescente in Svizzera ormai da quattro mesi, Mobutu rientrò in patria a dicembre per affrontare la situazione. Dopo poche settimane, decretato un aumento della paga dei soldati, ritornò in Svizzera.
Nei primi mesi del 1997 gli oppositori conquistarono con facilità quasi tutto il paese; iniziò una mediazione internazionale – con in primo piano Sudafrica, Stati Uniti, Francia e Belgio – alla ricerca di una soluzione.
In marzo il Parlamento destituì il primo ministro Kengo Wa Dondo e in aprile, per la terza volta, venne nominato Étienne Tshisekedi, con il consenso di Mobutu. Tshisekedi offrì a Kabila sei ministeri, tra cui la Difesa, ottenendo in cambio un rifiuto. Prevedendo la fine del regime, le compagnie minerarie straniere cominciarono a trattare con Kabila per proteggere i loro interessi in Zaire.
Il 16 maggio Mobutu fuggì in Marocco; il giorno dopo l’opposizione entrò a Kinshasa e Kabila si autoproclamò presidente. Il 7 settembre, Mobutu morì a Rabat e nello stesso mese il nuovo uomo forte assunse i pieni poteri militari, legislativi e amministrativi. Il nuovo governò cambiò il nome del paese in Repubblica Democratica del Congo, annunciando provvedimenti per risollevare l’economia. Fu avviata un’indagine sui fondi che Mobutu aveva sottratto alle casse dello Zaire, trasferendoli sui suoi conti personali in Svizzera.
Alla fine del 1997 uno studio dell’associazione Medici Senza Frontiere documentò i massacri commessi dalle forze di Kabila e dalle truppe ruandesi che avevano appoggiato l’abbattimento di Mobutu. I membri dell’Unione Congolese per la Democrazia (UCD) costituirono una formazione di guerriglieri composta da profughi tutsi e soldati congolesi smobilitati. L’UCD assunse il controllo della metà del territorio. Kabila iniziò la resistenza contro la “minaccia alla civiltà bantu”.
Il conflitto si internazionalizzò rapidamente e, nell’aprile del 1999, Kabila e i presidenti di Angola, Zimbabwe e Namibia annunciarono la formazione di un’alleanza finalizzata alla reciproca difesa militare. Mentre Angola, Zimbabwe e Namibia fornivano truppe e aiuti materiali all’esercito di Kabila, l’Uganda e il Ruanda appoggiavano i ribelli.
Due anni dopo l’inizio della guerra civile che aveva portato Kabila al potere, l’Uganda e il Ruanda detenevano il controllo di intere province del Congo. Il Parlamento fu sciolto nel 2000 e al suo posto il presidente nominò un’assemblea di governo composta da 300 membri.
Nel gennaio 2001, durante i lavori del vertice franco-africano, Kabila fu assassinato da una delle sue guardie del corpo. Il figlio Joseph assunse immediatamente la presidenza, mentre i paesi alleati dell’ex presidente organizzarono un incontro urgente. Tutti i dignitari che partecipavano al vertice decisero di non sottrarre il proprio appoggio al governo di Joseph Kabila.
Nel maggio 2001 iniziò il ritiro delle truppe sotto il controllo dell’ONU.
Dal cessate il fuoco, firmato da tutte le parti tranne che dal Raggruppamento Congolese per la Democrazia-Movimento di Liberazione (RCD-ML), ci si aspettava scaturisse un accordo politico che avrebbe portato a un governo di transizione e in seguito alle elezioni. Tuttavia in agosto i ribelli dell’RCDML occuparono il paese di Lokandu che era in mano alle forze governative. Un rapporto delle Nazioni Unite rese noto che sia il Ruanda che l’Uganda stavano prolungando oltre il dovuto il proprio «soggiorno» in Congo, in parte per sfruttare le ricche risorse naturali del paese.
Nel luglio 2002 Kabila e Paul Kagame, presidente del Ruanda, firmarono un trattato di pace che poneva fine a quattro anni di conflitto armato nella RDC. Il conflitto, chiamato la “guerra mondiale africana” aveva coinvolto gli eserciti di sei nazioni, suddiviso la RDC in regioni controllate dal governo e dalle forze ribelli e causato la morte di quasi tre milioni di persone, principalmente a causa della mancanza di cibo e del diffondersi di malattie. Firmando l’accordo a Pretoria, in Sudafrica, Kabila prometteva di disarmare, arrestare e rimpatriare almeno 12 mila combattenti delle milizie hutu del Ruanda, mentre il Ruanda avrebbe ritirato i suoi 30 mila soldati dalle regioni orientali della RDC.
In dicembre il governo Kabila, i gruppi della guerriglia e i partiti politici dell’opposizione firmarono un accordo che poneva fine alla guerra.
Nel luglio 2003 si insediò un governo di transizione. Si trattava di una giunta militare presieduta da Kabila e da quattro vicepresidenti: due comandanti dei principali gruppi ribelli, uno proveniente dall’opposizione e uno dal governo. Il governo di transizione aveva l’obiettivo di condurre il paese alle prime elezioni in 40 anni.
Tuttavia la violenza continuò nell’est, nell’Ituri, dove i combattimenti fra le popolazioni hema e lendu avevano causato 50 mila morti in quattro anni. Neldicembre 2003 l’ONU trasferì l’80% dei suoi 10 mila caschi blu a Bunia, la principale città dell’Ituri, nel tentativo di disarmare le milizie locali e proteggere i civili.
Una delle conseguenze della guerra è stata la diffusione dell’HIV/AIDS, che è divenuto una seria minaccia per la sicurezza nazionale. La mobilità dei soldati sul campo di battaglia e in particolare gli stupri largamente diffusi di donne, da bambine di 5 anni fino a donne anziane, hanno fatto salire drasticamente il numero delle persone infette.
Nel giugno del 2004 la popolazione di Bukavu protestò contro l’ONU che non aveva impedito ai ribelli di prendere per qualche tempo la città. Poco dopo vi fu un tentativo di golpe, stroncato da Kabila che lo attribuì a un ufficiale della sua Guardia.
In agosto, ribelli hutu massacrarono 150 rifugiati tutsi del Congo nel campo Gatumba oltre la frontiera del Burundi. L’ACNUR condannò aspramente la strage.
In settembre, un prestito di 20 milioni di dollari della Banca Mondiale finanziò il rilancio della pubblica istruzione in Congo.
Nel gennaio 2005 un’indagine interna rivelò che i caschi blu dell’ONU offrivano uova e latte in cambio di rapporti sessuali con ragazze, anche di 13 anni.
Nel febbraio 2005 circa 5.000 civili rientrano, sotto la protezione dei Caschi Blu della MONUC, nei loro villaggi nella regione dell’Ituri, da dove erano fuggiti a causa degli ultimi scontri. La missione delle Nazioni Unite, assieme a diverse ONG, ha organizzato convogli umanitari per garantire cibo e protezione agli sfollati. L’Unione Africana ha deciso di inviare un contingente di peacekeepers nella parte orientale del Congo, con lo scopo di disarmare i ribelli Hutu. La decisione è stata accolta con favore sia dalle autorità congolesi, che hanno raccomandato all’Unione Africana (UA) di inviare il contingente di soldati quanto prima, sia dal presidente rwandese Paul Kagame, che ha auspicato che la forza dell’UA possa riuscire dove la MONUC ha finora fallito. I ribelli del Fronte Democratico per la Liberazione del Rwanda (FDLR), invece, hanno espresso la loro contrarietà, definendo questa decisione dell’UA come un “atto barbaro” perché sostengono che dovere dell’Unione sia promuovere il dialogo fra le parti e non costringere ad un disarmo forzato.
Nel luglio 2005 a Kinshasa si radunano migliaia di persone ed marcinao fin davanti al Parlamento per protestare contro il rinvio delle elezioni presidenziali, che si sarebbero dovute tenere il 30 giugno 2005 (secondo gli accordi del 2003). Gli scontri con la polizia hanno provocato la morte e il ferimento di diverse persone. L’opposizione, guidata da Tshisekedi, accusa le forze politiche al potere di una dura repressione della protesta (nata come protesta pacifica) e di voler volontariamente rimandare le elezioni per impedire alla RDC di uscire da questa fase di transizione, nella quale si trova ormai dal 2003.
Il 4 novembre 2005 il Consiglio di sicurezza delle NU adotta delle sanzioni verso chi viola l’embargo sulle armi nella Repubblica democratica del Congo. Una vera e propria economia di contrabbando si è installata nelle regioni orientali dell’ex-Zaire, dove continuano i combattimenti, che pesano sul paese e sulle elezioni generali, inizialmente previste per il 2005 e poi rimandate a giugno 2006.
Nel luglio 2006 19, dei 33 candidati alla presidenza alle prossime elezioni, hanno chiesto la sospensione della campagna elettorale (iniziata ufficialmente il 30 giugno) in nome di quella che loro chiamano “trasparenza” nelle prime elezioni democratiche del paese dopo 45 anni. “Noi esigiamo il congelamento della campagna elettorale, aspettando di svuotare il processo elettorale di tutte le irregolarità constatate e denunciate”, ha dichiarato Gérard Kamanda Wa Kamanda, uno dei 19 firmatari e attuale Ministro della Ricerca Scientifica nel Governo di transizione. Tra le irregolarità, i candidati denunciano la stampa di circa 10 milioni di schede per il voto supplementari e la regolamentazione di più di 60.000 stranieri sui confini orientali e sud orientali. Inoltre, hanno criticato la mancata pubblicazione della lista nominativa degli elettori.
Gli agenti umanitari delle NU stanno avendo molte difficoltà a raggiungere la parte nord orientale della regione dell’Ituri, dove si trovano migliaia di civili sfollati a causa degli ultimi combattimenti. Molti sono ancora nascosti nella foresta e continuano a combattere. Ben circa 7.000 sfollati sono arrivati a Bunia, la principale città del distretto e sono stati ospitati da altre famiglie, nelle scuole e nelle chiese.
Nel gennaio 2008 viene stretto l’accordo AMANI (pace, in swahili) tra l’armata congolese e le milizie del CNDP del generale Nkunda.

A partire dal 27 agosto 2008, in numerose località del territorio di Rutshuru, nuovi e più aspri scontri sono ricominciati tra le Forze Armate congolesi (FARDC) e le milizie ribelli del “Congrès National pour le Progrès du Peuple” (CNDP), guidate dal generale dissidente Laurent Nkunda. Successivamente da Rutshuru i combattimenti si sono estesi verso Nord, coinvolgendo i territori di Lubero (Diocesi di Butembo-Beni), e verso Sud, coinvolgendo i territori del Masisi, sino a certe località della Provincia del Sud-Kivu. Oltre a questi avvenimenti di principale interesse, nella Provincia Orientale l’esercito regolare è stato contemporaneamente impegnato a bloccare e respingere l’offensiva dei ribelli ugandesi dell’LRA, che hanno attaccato il Centro di Dungu, con vittime tra i militari e civili, tra cui un rappresentante politico locale. Nella ritirata numerose le rapine per un reclutamento forzato, tanto di ragazzi che di ragazze, ma circa 4.000 famiglie scappate da Dungu restano impaurite e nascoste nelle campagne.

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