La storia del conflitto

Nonostante le obiezioni dell’Egitto, nel 1953 il Sudan ottenne un regime di autogoverno.

Nel 1955 si tennero le elezioni parlamentari e il Partito Nazionale Unionista, sostenuto dal presidente egiziano Nasser, vinse con un ampio margine sulla Umma. A ciò fece seguito, nel 1956, una dichiarazione di indipendenza da parte di Azhari e della sua maggioranza parlamentare. La costituzione provvisoria rafforzò il nord respingendo la proposta di una federazione.
I cristiani e gli animisti cristiani, le cui speranze di essere rappresentati nell’Assemblea furono annullate dalla Costituzione, avviarono una guerra civile che continuò fino al 1972.
Nel 1958, il generale Ibrahim Abbud prese il potere con un colpo di Stato. Dopo aver liberalizzato il prezzo del cotone e sciolto i partiti politici, instaurò un Concilio Supremo che garantiva l’osservanza delle leggi dell’islam ortodosso in tutto il territorio sudanese, imponendo, tra l’altro, la lingua araba. Nel 1962, espulse i missionari cristiani dalle scuole del Sudan meridionale.
Tali misure provocarono una ribellione al sud. Numerosi gruppi di opposizione a Khartoum aderirono alla mobilitazione per rivendicare la democrazia e protestare contro la liberalizzazione dei prezzi del cotone.
Nell’ottobre del 1964, Abbud fu costretto a dimettersi e fu costituito un governo di transizione.
Le elezioni del 1965 portarono alla presidenza Muhammed Mahjud, il leader del Partito Umma. Nei suoi quattro anni in carica, non riuscì a migliorare la situazione economica del Sudan. Inoltre, le varie fazioni del parlamento rimasero su posizioni inconciliabili e il sud lanciò nuove offensive, a causa delle mancate promesse di partecipazioni politica.
Nel 1969, il generale Gaafar al- Nimeiry prese il potere con un colpo di Stato.
Nel 1971, anno in cui Anya Nya (gruppo di ribelli del sud) controllava la maggior parte delle zone rurali, i suoi leader militari costituirono un’organizzazione politica, il Movimento di Liberazione del Sudan Meridionale (SSLM).
Il regime di Nimeiry riconobbe che l’escalation della guerra civile al sud stava debilitando le risorse del paese e impediva lo sviluppo economico del Sudan. Nel 1971 Nimeiry accettò di negoziare un compromesso con il SSLM. Varie sessioni di mediazioni culminarono nei trattati di pace di Addis Abeba, Etiopia, nel febbraio e marzo 1972. In base agli accordi di Addis Abeba, il governo centrale e il SSLM concordarono un cessate il fuoco e Khartoum riconobbe l’autonomia regionale delle tre province meridionali.
La pace del 1972 e il conseguente aumento del prezzo del petrolio attrasse investimenti da vari paesi arabi, finalizzati alla coltivazione di aree ben irrigate e allo sviluppo di infrastrutture. Nel 1977, Nimeiry fu rieletto, ma l’incompetenza e la corruzione del suo governo avevano sommerso il Sudan nei debiti. Il debito estero, che ammontava quell’anno a otto miliardi di dollari, causò la bancarotta del paese nel 1978, dopo la sospensione di tutti i crediti da parte del FMI.
Nel 1983, mentre esperti della compagnia Americana Chevron scoprivano giacimenti di petrolio nel sud, Nimeiry revocò il trattato di Addis Abeba e, sotto l’influenza dei Fratelli Musulmani (Sunniti) del Fronte Nazionale Islamico (FNI), impose la Sharia (legge islamica). Lo stesso anno, Nimeiry fu rieletto nonostante numerose accuse di brogli.
Queste misure riaccesero i combattimenti al sud. Un’offensiva dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (SPLA) di John Garang, la più potente delle 12 organizzazioni nella regione, costrinse al ritiro tutte le compagnie interessate ai giacimenti petroliferi.
Il FNI con gli altri partiti settentrionali di opposizione, da un lato, e gli organismi finanziari internazionali, dall’altro, criticarono aspramente la decisione di Nimeiry di applicare la Sharia, con i suoi conseguenti limiti sulla libertà politica ed effetti collaterali sui sistemi finanziari.
Nell’aprile 1985, mentre Nimeiry si trovava negli USA, il suo ministro della difesa ecomandante generale dell’esercito, Abdul al- Dahab, prese il potere e convocò le elezioni per l’anno seguente.
Il Partito popolare (Umma) vinse le elezioni dell’aprile 1986 e il suo capo, Sadiq al-Mahdi, fu eletto primo ministro.
Lo SPLA chiese le dimissioni diMahdi e la formazione di un governo provvisorio, mentre i suoi 12 mila guerriglieri circondavano le guarnigioni del sud fedeli al governo. Presero il controllo della regione, bloccando spesso gli aiuti alla popolazione colpita dalla violenza e bisognosa di cibo e medicinali.
Nel giugno 1989, nel pieno della guerra tra il Movimento popolare di liberazione sudanese (SPLM) (l’ala armata dello SPLA) e l’esercito governativo, il generale Omar al-Bashir estromise il regime al potere, sciogliendo i partiti politici e creando una giunta militare con la partecipazione del Fronte Nazionale Islamico (FNI), rinominato Partito del Congresso Nazionale (PCN).
Nel 1995, quando la guerra civile aveva ormai causato un milione di morti e costretto tremilioni di persone a fuggire nei paesi vicini, le organizzazioni africane per i diritti umani accusarono Khartoum del genocidio dei nubiani.
Nell’elezioni del marzo 1996, al-Bashir fu rieletto con il 76% dei voti.
Nel gennaio 1998, dopo aver dimostrato che il Sudan aveva dato rifugio al leader della rete terroristica di al-Qaeda, Osama bin Laden, agli inizi degli anni ’90, gli USA annunciarono un embargo economico contro il Sudan. Dopo il bombardamento delle ambasciate americane in Tanzania e Kenya, gli USA accusarono Khartoum di aver sostenuto il terrorismo internazionale e, pochi mesi dopo, bombardarono un presunto obiettivo terroristico (di fatto un impianto chimico) vicino alla capitale.
Nel 1999, al-Bashir dichiarò lo stato d’emergenza e rinnovò il suo gabinetto.
Nello stesso anno la Cina, che importava il 55% di tutte le esportazioni sudanesi nel 2004, insieme a una compagnia malaysiana e a una canadese, acconsentì a finanziare la realizzazione di un condotto petrolifero fino al Mar Rosso. In base a questo accordo il Sudan dovrebbe percepire un’entrata annua netta di 500 milioni di dollari a partire dal 2003.
Tra il 1998 e il 2002, la fame e la guerra causarono ogni giorno lo sfollamento di centinaia di persone, dirette verso i centri di aiuti umanitari.
Nel febbraio 2001, al-Bashir assunse nuovamente l’incarico, avendo ottenuto l’86,5% dei voti nelle elezioni del dicembre 2000, boicottate dalla maggioranza dei partiti di opposizione.
Nel dicembre 2001, dopo una campagna di sei mesi condotta dalle organizzazioni per i diritti umani, le autorità di Khartoum annunciarono di aver rilasciato oltre 14.500 schiavi.
Un mese dopo, lo SPLA firmò un’alleanza con il suo rivale meridionale, la Forza sudanese di difesa popolare (FSDP), formando un fronte comune contro il governo.
In ottobre, l’avvio delle trattative di pace in Kenya tra il governo sudanese e lo SPLA segnò la fine di 19 anni di guerra civile che erano costati la vita a circa due milioni di persone. In quell’occasione, il Segretario di Stato americano Colin Powell, i cui funzionari avevano dichiarato che l’accesso al petrolio africano era una “questione di interesse nazionale”, minacciò di triplicare il contributo USA allo SPLA, per un totale di 300 milioni di dollari, nonché di mantenere l’embargo contro il Sudan, se non fosse stata raggiunta la pace entro il marzo 2003. Principalmente a causa della guerra, nel 2003 il 92% dei sudanesi vivevano al di sotto della soglia di povertà.
Da parte sua, il capo dello SPLA, colonnello John Garang, pretendeva la vicepresidenza del Sudan al posto di Osman Ali Taha. Reclamava inoltre le province meridionali di Nuba, Abyei e Nilo Azzurro, cadute sotto la giurisdizione settentrionale nel 1972. Ma la questione rimase irrisolta.
Tra l’aprile e il dicembre 2003, il governo sudanese e lo SPLA strinsero un patto per: riunire le loro truppe in un esercito di 39 mila uomini; dividere i profitti del petrolio al gennaio 2004; approntare una nuova costituzione entro il 2004; concedere l’autonomia amministrativa al sud nello stesso anno e indire un referendum nel 2010 sull’indipendenza del sud. Hassan al-Turabi, leader del FNI, che era stato incarcerato diversi anni prima, fu rilasciato nell’ottobre 2003, mentre veniva annullata la proscrizione contro il suo partito.
Mentre si trattava la pace fra nord e sud, le truppe governative lanciarono un’offensiva nel gennaio 2004 a Darfur, nel Sudan occidentale, area posta sotto le due giurisdizioni del nord e del sud. Attaccarono l’Esercito/Movimento di liberazione sudanese (SLA/M, ex Movimento di liberazione di Darfur).
Lo SLA/M era stato fondato l’anno prima, in risposta agli attacchi sistematici contro la regione di Fur da parte di gruppi di nomadi arabi appartenenti alla popolazione Janjawid, che aveva lasciato il Sahel (sua regione d’origine) a causa della desertificazione e voleva sfrattare i gruppi etnici neri musulmani (Masaalit, Fur e Zaghawa) dalle loro terre ben irrigate.
I Janjawid erano armati e addestrati dal governo sudanese per perseguire una politica di “terra bruciata”. Entro il maggio 2004, quest’operazione era costata diecimila vite umane, la distruzione di enormi tratti di terra e l’esodo di un milione di persone. Molti di questi profughi si rifugiarono nel Ciad e moltissimi furono picchiati, stuprati e torturati lungo la strada. L’Organizzazione mondiale contro la tortura denunciò le torture compiute contro bambini profughi di Darfur.
Nel marzo 2004, al-Turabi e i suoi seguaci politici e militari furono nuovamente arrestati da al-Bashir.
Nel maggio 2004, l’esercito del Ciad fu attaccato sul confine dalle forze governative sudanesi.
Lo stesso mese, osservatori politici lanciarono l’allarme circa una possibile alleanza antigovernativa tra i gruppi armati di Darfur e quelli di Nuba, Abyei e Nilo Azzurro, con il conseguente prevedibile scoppio di conflitti in tutto il Sudan.
Nell’aprile 2004, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite si astenne dall’applicare sanzioni contro il governo sudanese. Tuttavia, il mese seguente, il Programma Alimentare Mondiale (PAM) dell’ONU annunciò che tre milioni di persone erano vittime di fame e malattie in conseguenza della guerra.
In giugno, gli scontri nella regione del Darfur avevano assunto proporzioni drammatiche. Il segretario di stato USA Colin Powell si recò in Sudan e cercò di fare pressione affinché terminassero gli attacchi contro la popolazione civile in Darfur. Il segretario generale dell’ONU Kofi Annan sottolineò la necessità, da parte della comunità internazionale, di agire in difesa della popolazione del Darfur se il governo di Khartoum non fosse intervenuto. L’ONU descrisse il conflitto nel Darfur come la peggiore crisi umanitaria del mondo.
Al marzo del 2005 si stimava che 180.000 persone fossero morte nel conflitto in Darfur negli ultimi 18 mesi e che 2 milioni avessero abbandonato le proprie case, cercando rifugio nelle città principali. 200.000 persone erano fuggite in Ciad. La Commissione dell’ONU per il Darfur concluse che il governo non era responsabile di genocidio – cosa che avrebbe obbligato la comunità internazionale a intervenire – ma di “gravi violazioni dei diritti umani e della legge internazionale”, che potrebbero essere perseguiti come crimini contro l’umanità.
Il riacutizzarsi del conflitto tra il Governo del Sudan, l’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (SPLA/M) e vari gruppi etnici ha prodotto circa 200 morti nel corso del 2008. Un violento scontro armato nella città contesa di Abyei ha provocato lo spostamento forzato di decine di migliaia di persone. Alla fine di giugno, è stato raggiunto un accordo per il posizionamento di una forma militare congiunta nella regione. Nonostante vari tentativi interni ed esterni di una mediazione per la pace in Sudan, si è registrato un sostanziale stallo nei progressi verso la firma di un accordo di pace. Le difficoltà sono dovute alla crescente frammentazione tra le truppe ribelli e l’incertezza derivante dalle voci riguardo un possibile mandato di cattura internazionale a carico del presidente sudanese Bashir, da parte della Corte Penale Internazionale.

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La storia del conflitto

Trovandosi in una zona ad alta conflittualità, all’inizio della guerra fredda l’Afghanistan cercò di mantenersi equidistante tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma si vide a poco a poco costretto a dipendere sempre più dall’URSS a causa dell’appoggio dato dagli USA al Pakistan. A partire dal 1955, migliaia di afghani furono regolarmente inviati a studiare in Unione Sovietica, dove ricevevano una formazione soprattutto militare.

 
Le ambizioni indipendentiste dei pashtun spinsero Daud a ricorrere a misure repressive. Nel 1961 il Pakistan chiuse le frontiere con l’Afghanistan. L’influenza sovietica cominciò a farsi sentire con alcune tendenze marxiste nella stampa e anche nel governo. Nel marzo 1963 il re Zahir “accettò le dimissioni” di Daud e, due mesi dopo, il Pakistan riaprì le frontiere. Muhammad Yusuf fu nominato primo ministro. Egli propose un gabinetto di tecnocrati e intellettuali e approntò una nuova Costituzione basata sui principi della libertà individuale che preservava, al tempo stesso, i valori dell’islam e la monarchia.
 
Venne fondato in clandestinità il Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA), che nel 1965 organizzò le prime manifestazioni antimonarchiche. In breve il PDPA si divise tra il gruppo Jalq (composto dall’etnia tagik o afghanopersiana), che mirava a una rivoluzione basata esclusivamente sull’alleanza tra operai e contadini, e gli aderenti al Parcham o “bandiera” (dell’etnia pashtun), che cercavano un’ampia unione popolare con la partecipazione degli intellettuali, della borghesia nazionale, delle classi medie urbane e dei militari.
 
Lavoratori e studenti cominciarono a organizzarsi attivamente nelle zone industriali del paese. Poiché le manifestazioni diventavano sempre più frequenti, anche le critiche al re si fecero più aperte. Mosca, che non aveva apprezzato la sostituzione di Daud, sostenne nel 1973 la nomina dello stesso a presidente, mentre il re Zahir Ahas si trovava all’estero. Con l’appoggio del PDPA fu proclamata la repubblica e venne abrogata la Costituzione del 1964.
 
Daud propose un programma basato sulla democrazia e sul socialismo, soprattutto riguardo a riforma agraria, nazionalizzazione delle banche, sviluppo industriale e giustizia sociale. La nuova Costituzione a partito unico, basata sul modello dell’Algeria e dell’Egitto di Nasser, fu approvata nell’aprile del 1977 e Daud, che aveva deposto i ministri comunisti perdendo l’appoggio di Mosca, fu eletto presidente per un periodo di 10 anni.
 
Daud cercò di riallacciare i legami con il mondo islamico. Si recò in Kuwait, Arabia Saudita ed Egitto e cercò di riconciliarsi con lo shah di Persia nel 1978, riuscendo solo ad anticipare la propria caduta. I militari organizzati dal Parcham lo assassinarono con tutta la sua famiglia e designarono al suo posto Nur Mohamed Taraki, che fu anche nominato segretario del PDPA. Hafizullah Amin, dirigente di una fazione comunista rivale, e Babrak Karmal, leader del Parcham, furono nominati vice primi ministri. Il conflitto tra questi ultimi si risolse a favore di Amin, che nell’aprile del 1979 ricoprì la carica di primo ministro e a settembre depose e fece uccidere il suo ex alleato Taraki.
 
Amin rivoluzionò i modelli culturali del paese introducendo cambiamenti come l’eliminazione della “dote”, l’alfabetizzazione secondo valori laici e la riforma agraria. Benché Amin avesse assicurato che l’Afghanistan si considerava un paese non allineato, i contadini, a conoscenza delle trasmissioni di Radio Mosca, ritennero che il nuovo governo fosse marxista, filosovietico e quindi ateo. Nel febbraio 1979 l’ambasciatore nordamericano a Kabul fu sequestrato e assassinato. Gli Stati Uniti congelarono gli aiuti economici e aumentarono la loro ostilità verso un governo che qualificarono come filosovietico.
 
Amin fu ucciso durante un colpo di stato che, con l’appoggio delle truppe sovietiche penetrate nel paese “per motivi strategici” nel dicembre 1979, finì per portare Babrak Karmal alle cariche di primo ministro, presidente del Consiglio Rivoluzionario e Segretario Generale del PDPA. In varie parti del paese cominciò a crescere la resistenza contro gli invasori sovietici e si organizzarono i guerriglieri mujaheddin (combattenti per la fede). Musulmani fondamentalisti giunsero nei territori afghani con spedizioni di volontari finanziate dall’Arabia Saudita. Nello stesso tempo, milioni di contadini afgani si rifugiarono nei vicini Pakistan e Iran.
 
La guerriglia dei mujaheddin, divisi in diverse fazioni sostenute da altrettanti paesi (Stati Uniti, Iran, Pakistan, Arabia Saudita), coincideva con l’aumento dei contrasti a Kabul. Nel maggio 1986 Karmal fu sostituito come segretario del PDPA da Mohammed Najibullah, un giovane medico pashtun, che nel gennaio 1987 annunciò un cessate il fuoco unilaterale, accompagnato da garanzie per i capi dell’opposizione disposti a trattare con il governo, da un’amnistia per i ribelli prigionieri e dalla promessa di un prossimo ritiro delle truppe sovietiche. I mujaheddin, tuttavia, continuarono a combattere.
 
Dopo sei anni di trattative, fu firmato a Ginevra un accordo afghano-pakistano, sotto il patrocinio di Stati Uniti e Unione Sovietica. Tale accordo garantiva il rientro volontario dei profughi, che erano allora 4 milioni. Un altro documento, firmato da Afghanistan e URSS, disponeva il ritiro delle truppe sovietiche. Il PDPA cambiò il suo nome in Partito Watan (Partito della Patria).
 
Nel settembre 1991 gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica decisero congiuntamente di sospendere l’invio di armi al governo e alla guerriglia afghana. Il patto lasciò aperto lo scontro tra Arabia Saudita e Iran e i gruppi di mujaheddin finanziati dai due paesi. Il regime di Kabul, una volta scomparsa l’URSS, restò senza appoggi esterni e, dopo che il presidente Najibullah si fu rifugiato nella sede dell’ONU a Kabul, nell’aprile del 1992 il governo passò nelle mani dei quattro vicepresidenti.
 
Le autorità annunciarono la volontà di negoziare con i gruppi ribelli, ma il loro incontro con il comandante Ahmed Shah Massud, del Jamiat-i-Islami, provocò le proteste dei gruppi di mujaheddin di maggioranza pashtun del sud e dell’est del paese. Dal Pakistan, Gulbuddin Hekmatyar, capo del gruppo fondamentalista Hezb-i-Islami, minacciò di iniziare il bombardamento della capitale se il governo non si fosse dimesso. Nei giorni seguenti, forze di Massud e di Hekmatyar iniziarono i combattimenti all’interno della stessa Kabul.
 
L’alleanza dei gruppi islamici moderati capeggiati da Ahmed Shah Massud, il nuovo ministro della Difesa, ottenne il controllo della capitale, espellendo gli integralisti guidati da Gulbuddin Hekmatyar. In maggio, il Consiglio Interno dissolse formalmente il Partito Watan (ex PDPA). Furono disciolti anche la KHAD, polizia segreta, e l’Assemblea Nazionale.
 
Alcuni cambiamenti mostrarono l’intenzione del governo di reintrodurre nel paese la legge islamica: fu proibita la vendita di alcolici e si cercò di imporre nuove regolamentazioni per obbligare le donne a coprirsi il capo e a indossare gli abiti tradizionali. Hekmatyar continuò la lotta contro Kabul, esigendo il ritiro di Massud e delle milizie di Abdel Rashid Dostam. Quest’ultimo era stato membro del governo comunista, che aveva abbandonato per unirsi ai guerriglieri musulmani che avevano preso il potere.
 
In quel periodo l’economia del paese era paralizzata e il 60% dell’apparato produttivo distrutto. L’Afghanistan diventò il maggiore produttore di oppio del mondo. Il governo pakistano decise di bloccare il contrabbando di alimentari e di armi attraverso la sua frontiera con l’Afghanistan per indebolire Hekmatyar, che lo accusò di compromettere le relazioni tra i due paesi.
 
A partire dal 1993, il presidente a Kabul e capo del Jamiat-i-Islami, Buranuddin Rabbani, Hekhmatyar e Dostam furono i principali leader in un conflitto contrassegnato da accordi e tradimenti finché, nel 1995, la nascita del gruppo armato dei Taliban (“studiosi del Corano”) nel sud dell’Afghanistan modificò il corso della guerra. Questi guerriglieri, addestrati in Pakistan, avevano l’obiettivo di creare un governo islamico unito in Afghanistan. Secondo il loro proclama, i leader prima menzionati costituivano una “alleanza integralista-comunista” che minacciava l’islam.
 
Oltre al Pakistan, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti appoggiarono l’intervento dell’esercito taliban che nel settembre del 1996 conquistò Kabul, mentre il governo si dirigeva verso il nord del paese. Il capo dei taliban era Mohammed Omar Akhunzada (il Mullah Omar), eletto nell’aprile del 1996 “comandante dei credenti” (amir ol-momumin). Nel giugno del 1997 si formò il Fronte Islamico Nazionale Unito per la Salvezza dell’Afghanistan, più noto come Alleanza del Nord (AN) o Fronte Unico, composto in maggioranza da gruppi tagichi, uzbechi e hazari.
 
Presa Kabul, seguendo le norme di governo derivate da un’interpretazione rigida del Corano, i taliban eliminarono le donne dalla scena pubblica e dal sistema educativo, restaurando il purdah. Proibirono anche la musica e il canto (tranne gli inni religiosi), il cinema, il teatro e le bevande alcoliche, dichiarandoli “non islamici”. Alla fine del 2000, l’esercito taliban controllava più del 95% del territorio afghano.
 
Il 3 settembre del 2001 Massud, leader dell’AN, fu assassinato – si suppone su istigazione del Mullah Omar – e ciò rappresentò un colpo mortale per le aspirazioni dell’opposizione afghana. Circa una settimana dopo, l’ 11 settembre 2001, si verificò l’attacco terroristico contro New York e Washington. Gli Stati Uniti ne attribuirono la responsabilità all’organizzazione terroristica al-Qaeda, diretta dal saudita Osama Bin Laden, ex mujaheddin che viveva in Afghanistan con migliaia dei suoi uomini, protetto dai taliban.
 
Nel settembre del 2001 il Consiglio degli anziani, riunitosi a Kabul, chiese al governo taliban di persuadere Bin Laden ad abbandonare volontariamente il paese. Il Consiglio risolse anche di proclamare un jihad (guerra santa) qualora gli Stati Uniti avessero attaccato l’Afghanistan.
 
Il 7 ottobre cominciarono i bombardamenti aerei dell’Afghanistan, nell’ambito della campagna denominata inizialmente “Giustizia Infinita” e in seguito “Libertà Duratura” dal presidente George W. Bush. La coalizione contro l’Afghanistan contò sulla partecipazione diretta di Regno Unito, Australia e Canada, e sull’appoggio della UE e della Nato (inclusa la Turchia), di Cina, Russia, Israele, India, Arabia Saudita e Pakistan, ex alleato dei taliban. L’Iran e l’Iraq condannarono gli attacchi. Rabbani non solo diede il benvenuto all’intervento militare occidentale, ma dichiarò che il futuro dell’Afghanistan dipendeva dalla “distruzione” dei taliban.
 
In seguito ai bombardamenti, che durarono diverse settimane, l’AN recuperò due terzi del paese e il 13 novembre fece ingresso a Kabul. Buona parte della popolazione accolse favorevolmente l’arrivo dell’AN, che poneva fine sia al regime dei taliban, sia ai bombardamenti statunitensi.
 
La caduta dei taliban era imminente quando si svolse la Conferenza Interafghana a Bonn. Per la prima volta due donne parteciparono alla discussione. Venne firmato un accordo in base al quale si creava un’Amministrazione ad interim di 30 membri, alla cui presidenza fu nominato il pashtun filomonarchico Hamid Karzai. Si concordò un programma di due anni e mezzo fino alla celebrazione di elezioni generali, prima delle quali si sarebbero formate una Loya Jirga (Assemblea) d’Emergenza, una Autorità di transizione e una Loya Jirga Costituzionale, assistite da una Forza di sicurezza internazionale dell’ONU. Abdullah, Qanuni e Fahim furono confermati nelle funzioni che già svolgevano nel governo dell’Alleanza, mentre l’ex re Mohamed Zahir Shah inaugurò la Loya Jirga. Rabbani accettò le decisioni adottate il 12 dicembre, anche se, secondo lui, Karzai era un presidente “imposto dall’esterno”. Il 22 dicembre assunse il potere Karzai.
 
Nel febbraio del 2002 Bush diede ordine di riallacciare le relazioni commerciali con l’Afghanistan, dopo 16 anni di interruzione. La lotta tra le fazioni proseguiva e, nonostante la caccia globale ai terroristi capeggiata dagli Stati Uniti, Osama Bin Laden e il Mullah Omar non erano ancora stati catturati.
 
Nonostante la fine ufficiale della guerra, l’Afghanistan era ancora soggetto ad attacchi. Nel luglio del 2002, nel villaggio meridionale di Deh Rawud, un aereo militare USA uccise circa 50 civili afghani e ne ferì oltre 100. Alcuni giorni dopo il vicepresidente Haji Abdul Qadir fu assassinato con il suo autista.
 
Un certo Abdul Rahman, sospettato di appartenere ad al-Qaeda, sparò quattro raffiche di mitra contro la vettura su cui viaggiava Karzai uccidendo il governatore di Kandahar Gul Agha Sherzai e una guardia del corpo.
 
Dopo oltre due decenni di conflitti armati, alla fine del 2002 il territorio afghano risultava uno dei più minati del mondo.
 
Gran parte del paese era controllato da potenti signori della guerra sostenuti dagli Stati Uniti che facevano i propri comodi senza alcuna interferenza da parte del governo centrale. L’autorità del presidente Karzai era circoscritta quasi esclusivamente alla capitale.
 
Nell’ambito di un’apertura virtuale al mondo, nel marzo 2003 l’Afghanistan attivò il suo dominio su Internet; durante il regime talebano chiunque tentasse di accedere a Internet, eccezion fatta per i membri del governo, rischiava la condanna a morte.
 
Nonostante la caduta del regime talebano, la condizione femminile rimase difficile: a parte Kabul, nelle altre zone del paese le donne che esprimevano il desiderio di studiare o lavorare venivano perseguitate e obbligate a sposarsi e un gran numero di bambini in tenera età (anche di quattro anni) venivano rapiti e venduti all’estero, destinati al mercato del lavoro o della prostituzione.
 
Nell’agosto del 2003 la NATO lanciò una missione di pace in Afghanistan, la prima a varcare i confini europei sin dalla nascita dell’organizzazione (1949). Alla NATO venne affidata la programmazione, la supervisione, il comando e il controllo delle Forze di Sicurezza Internazionali in Afghanistan sotto gli auspici dell’ONU.
 
In vista delle prime elezioni nazionali dopo trent’anni di regime fissate per il giugno del 2004, nell’agosto del 2003 l’ONU e il governo afghano firmarono un accordo che prevedeva la compilazione dei registri elettorali. Il censimento venne effettuato sia da funzionari uomini che da donne in modo da agevolare la registrazione delle elettrici.
 
Nel mese di novembre la Commissione per le Riforme Costituzionali inviò al presidente Karzai e all’inviato speciale dell’ONU Lakhdar Brahimi una bozza della nuova Costituzione che prevedeva la creazione di una repubblica islamica in cui fosse garantita a tutti i cittadini la parità dei diritti. Questa Costituzione non fa riferimento esplicito alla sharia, ma è chiaro che le leggi di un paese musulmano non possono contraddire la legge islamica. Amnesty International avverte infatti che questo testo costituzionale non tutela fino in fondo i diritti delle donne, in quanto non condanna esplicitamente la discriminazione sessuale e non riconosce completamente la parità dei sessi.
 
Nel maggio del 2004 l’Ong Human Rights Watch (HRW) ha denunciato i “maltrattamenti sistematici” inflitti dai soldati americani ai prigionieri afghani e ha richiesto un’indagine su 3 decessi. Secondo questa Ong che si occupa di tutela dei diritti umani, i prigionieri afghani avrebbero subito gli stessi maltrattamenti riservati dai militari statunitensi ai soldati iracheni, ossia sarebbero stati privati del sonno, esposti a temperature gelide, malmenati, denudati, umiliati e fotografati senza indumenti. A conferma di ciò, anche il portavoce dell’ONU Manoel de Almeida e Silva ha affermato di aver ricevuto negli ultimi due anni diverse denunce di violazioni dei diritti umani. Si ritiene che nella principale base americana di Bagram a nord di Kabul siano detenuti 300 soldati afghani e che gli americani tengano prigionieri un numero imprecisato di militari in altre basi segrete.
 
Il 3 novembre 2004 Karzai vinse le prime elezioni presidenziali con il 55% delle preferenze. L’opposizione denunciò brogli elettorali, ma una commissione formata da tre funzionari dell’ONU sancì che i problemi riscontrati nel sistema elettorale non avevano comunque influito sul risultato finale, che confermò Karzai presidente dell’Afghanistan.
 
Nel tentativo di instaurare negoziati di pace con i taliban, nel gennaio 2005 l’esercito degli Stati Uniti liberò 80 prigionieri detenuti nella base aerea americana di Bagram perché sospettati di far parte del movimento.
 
Il primo rapporto sullo sviluppo del paese, pubblicato dall’ONU nel febbraio del 2005, segnalò che tre anni dopo la caduta del regime taliban l’Afghanistan continuava a essere uno degli stati più poveri del pianeta e che ciò rischiava di farlo precipitare nuovamente nel caos. Secondo il rapporto c’era stata una certa crescita economica, ma questa non aveva portato alcun beneficio alle classi povere. Le donne rappresentavano ancora la parte più penalizzata della società, condannate a essere denutrite, escluse dalla vita pubblica, vittime di violenze, stupri e matrimoni forzati. Nel rapporto si affermava che il sistema di istruzione afghano era il peggiore del mondo e che il tasso di alfabetizzazione fra gli adulti raggiungeva appena il 28,7%. Un quarto della popolazione era rifugiata nei paesi vicini. Secondo il rapporto dell’ONU, se questi problemi non saranno affrontati, il paese – ancora in preda alla violenza tra fazioni diverse – collasserà e si trasformerà in una minaccia non solo per se stesso, ma per tutta la comunità internazionale.
Nel settembre 2005 si tennero le prime elezioni parlamentari e provinciali dopo più di trent’anni, e tre mesi dopo il nuovo Parlamento si riunì per la prima volta. Circa 12 milioni di persone furono iscritte nei registri elettorali per votare i 249 seggi della Wolesi Jirga e per 34 Consigli provinciali. Sono quest’ultimi ad eleggere i 102 membri della Meshrano Jirga.
A fine luglio 2006, la NATO si prese carico del controllo della regione sud del paese tradizionalmente dominata da talebani e narcotrafficanti. Il numero di civili vittime delle forze afghane e della colaizione USA risultò in forte aumento rispetto all’anno precedente. In tutto il 2006 erano stati dichiarati 230 morti civili, mentre solo nei primi quattro mesi del 2007 ve ne furono 300.
 
2008 Con un aumento del 31% degli attacchi militari, il settennale conflitto in Afghanistan ha raggiunto nel 2008 il suo apice di violenza. Nello corso dello stesso anno le forze della coalizione hanno subito il numero più elevato di vittime dall’inizio del conflitto (quasi 270 soldati uccisi), ed è stata registrata la perdita più elevata di vita umane a carico di una specifica forza armata straniera: si tratta di 10 soldati francesi uccisi nel mese di agosto nel corso di un agguato alla periferia di Kabul. L’aumento dei morti tra le forze della colazione è anche dovuto all’incremento del 31% (rispetto al 2007) nell’utilizzo delle cosiddette bombe “roadside”.
Il numero di perdite civili varia notevolmente seconda della fonte statistica. In genere, le stime militari parlano di centinaia di vittime, mentre le stime fornite dalle organizzazioni internazionali e dalle agenzie che si occupando di diritti umani parlano di migliaia di vittime.
La UN Assistance Mission to Afghanistan (UNAMA) riferisce di 2.118 perdite civili nel corso del 2008, pari ad un aumento percentuale del 39% nei confronti del 2007. Il conteggio totale dei morti del 2008 si colloca su valori pari a 6.340 unità, molto simile al dato del 2007 (6.500 morti).

tratto da:

Guida del mondo 2007/2008. Il mondo visto dal Sud – Ed. EMI (Editrice Missionaria Italiana)