Paolo VI (1963-1978)


Discorso all’ONU (New York, 4 ottobre 1965)

 
 
Lasciate cadere le armi dalle vostre mani
 
«…Voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora all’inizio delle vostre fatiche. Arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi: la prima è quella del disarmo. Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno. Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza odierna vi ha dato, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. … … Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo! Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità. Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina e alle più alte conquiste! In una parola, l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principi spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo. E perché tali siano questi indispensabili principi di superiore sapienza – è Nostra convinzione, lo sapete bene -, essi non possono che fondarsi sulla fede in Dio».
 

 
Populorom progressio (26 marzo 1967)
 
(§30) Si danno, certo, situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana.
 
(§31) E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande.
 
(§32) Ma desideriamo che il nostro pensiero venga rettamente inteso: la situazione presente dev’essere affrontata coraggiosamente e le ingiustizie, che essa comporta, combattute e vinte. Lo sviluppo esige trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio. A ciascuno l’assumersi generosamente la sua parte, soprattutto a quelli che per la loro educazione, la loro situazione, il loro potere si trovano ad avere grandi possibilità d’azione. Pagando esemplarmente di persona, essi non esitino a incidere su quello che è loro, come hanno fatto diversi dei Nostri fratelli nell’episcopato. Risponderanno così all’attesa degli uomini e saranno fedeli allo Spirito di Dio: giacché è «il fermento evangelico che ha suscitato e suscita nel cuore umano un’esigenza incoercibile di dignità».
 
«I ricchi saranno del resto i primi ad esserne avvantaggiati. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili». (49)
 
«Quando tanti popoli hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nell’ignoranza, quando restano da costruire tante scuole, tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi». (53)
 
«Lo sviluppo è il nuovo nome della pace. Le disuguaglianze economiche, sociali e culturali troppo grandi tra popolo e popolo provocano tensioni e discordie, e mettono in pericolo la pace. Come dicevamo ai padri conciliari al ritorno dal nostro viaggio di pace all’ONU: «La condizione delle popolazioni in via di sviluppo deve formare l’oggetto della nostra considerazione; diciamo meglio, la nostra carità per i poveri che si trovano nel mondo – e sono legione infinita – deve divenire più attenta, più attiva, più generosa». Combattere la miseria e lottare contro l’ingiustizia, è promuovere, insieme con il miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene comune dell’umanità. La pace non si riduce a un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini». (76)
 
«Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non potranno realizzarlo nell’isolamento. Accordi regionali tra popoli deboli per sostenersi vicendevolmente, intese più ampie per venir loro in aiuto, convenzioni più impegnative tra gli uni e gli altri, volte a stabilire programmi concertati: sono le tappe di questo cammino dello sviluppo che conduce alla pace». (77)
 
«Infine, ci volgiamo verso tutti gli uomini di buona volontà consapevoli che il cammino della pace passa attraverso lo sviluppo». (83)
 
«Di gran cuore vi benediciamo, e chiamiamo tutti gli uomini di buona volontà ad unirsi fraternamente a voi. Perché, se lo sviluppo è il nuovo nome della pace, chi non vorrebbe cooperarvi con tutte le sue forze? Sì, tutti: Noi vi invitiamo a rispondere al Nostro grido d’angoscia, nel nome del Signore». (87)
  

 
Octogesima adveniens (Lettera apostolica, 15 maggio 1971)
 
(§2) «Differenze evidenti sussistono nello sviluppo economico, culturale e politico delle nazioni: accanto a regioni fortemente industrializzate, altre sono ancora allo stadio agricolo; accanto a paesi che conoscono il benessere, altri lottano contro la fame; accanto a popoli ad alto livello culturale, altri continuano a occuparsi della eliminazione dell’analfabetismo. Da ogni parte sale un’aspirazione a maggiore giustizia e si alza il desiderio di una pace meglio assicurata, in un mutuo rispetto tra gli uomini e tra i popoli».
 
(§17) «È dovere di tutti, e specialmente dei cristiani (cf. Mt 25,35), lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura: «Non possiamo invocare Dio, Padre di tutti gli uomini, se rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio. La relazione dell’uomo con Dio Padre e quella dell’uomo con gli altri uomini, suoi fratelli, sono tanto connesse che la Scrittura dice: “Chi non ama, non conosce Dio” (1Gv 4,8)».
 
(§23) «Chi non vede il contributo fondamentale, in questo campo, dello spirito cristiano, il quale va incontro all’aspirazione dell’uomo a essere amato? «L’amore dell’uomo, primo valore nell’ordine terreno», assicura le condizioni della pace, sia sociale che internazionale, affermando la nostra fraternità universale».
 
(§45) «Così, molti cominciano a interrogarsi sul modello stesso di società. Nelle competizioni che le oppongono e le trascinano, l’ambizione di numerose nazioni è d’impadronirsi della potenza tecnologica, economica, militare; essa contrasta allora con l’assetto di strutture nelle quali il ritmo del progresso sia regolato in funzione di una più grande giustizia, invece di accentuare le disparità e di vivere in un clima di sfiducia e di lotta che compromette continuamente la pace». (§48) «Il cristiano alimenta la propria speranza sapendo innanzi tutto che il Signore è all’opera con noi nel mondo e che attraverso il suo corpo che è la chiesa – e per essa in tutta l’umanità – prosegue la redenzione compiuta sulla croce e che esplose in vittoria la mattina della risurrezione (cf. Mt 28,30; Fil 2,8-11); sapendo ancora che altri uomini sono all’opera per dar vita ad azioni convergenti di giustizia e di pace; poiché dietro il velo dell’indifferenza c’è nel cuore di ogni uomo una volontà di vita fraterna e una sete di giustizia e di pace che si devono far fiorire».
 

 
Evangelii nuntiandi (Esortazione apostolica, 8 dicembre 1975)
 
E’ impossibile accettare che nell’evangelizzazione si possa trascurare la pace del mondo
 
(§31)«Evangelizzazione e promozione dell’uomo
Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo, liberazione – ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell’ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo? Noi abbiamo voluto sottolineare questo ricordando che è impossibile accettare che “nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace del mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso” ».