Sapendo che non servirà


Responsabilità di un genocidio dimenticato

 
Si vedono cose qui che non si vedono in nessun’altra parte del mondo. In molti anni e in molte destinazioni non ho mai visto bambini soldato con un aspetto così giovane e così piccolo… Tutte le volte che li incrocio con lo sguardo, penso a mio figlio. Sono così piccoli. A volte, quando sono qui, mi metto nelle mani di Dio». Sono le parole di un soldato della Missione dell’ONU nella Repubblica democratica del Congo (MONUC), di stanza nella martoriata regione dell’Ituri, nel Nord-Est del paese. È qui l’epicentro della guerra che dal 1998 vede coinvolta un’innumerevole congerie di gruppi e gruppuscoli etnici, grandi e piccole formazioni militari, accomunate dall’uso delle armi, da ciniche quanto aleatorie alleanze politico-militari, da uno dei più ampi impieghi di bambini-soldato e, soprattutto, dall’appoggio militare e logistico di Ruanda, Uganda e della stessa Repubblica democratica del Congo. Qui dal 1998 a oggi sono morte 50.000 persone e 500.000 sono fuggite, in un conflitto che vede una stima complessiva di 3 milioni di morti e altrettanti rifugiati. Una guerra che si avvicina per portata al secondo conflitto mondiale.
 
Il rischio di un nuovo genocidio
Si è tornati a parlare di questa regione quando, a maggio, le organizzazioni per i diritti umani hanno fatto pressione sull’ONU perché intervenisse in quello che molte voci definivano un nuovo genocidio nella regione; tra esse anche quella del procuratore generale dei Tribunali internazionali per il Ruanda e l’ex Iugoslavia, Carla del Ponte. Se così fosse, gli stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma che istituisce la Corte penale internazionale avrebbero l’obbligo d’intervenire (Regno-doc. 7,1997,201). Il ricordo dell’assenza occidentale nel massacro del 1994 in Ruanda è ancora molto vivo.
 
Questa nuova carneficina (con 430 morti accertati) è avvenuta attorno alla città di Bunia, capoluogo dell’Ituri, a partire dal 6 maggio, quando le truppe ugandesi si sono ritirate. Lo scontro tra gruppi hema (appoggiati dal Ruanda) e lendu (appoggiati dall’Uganda) non ha risparmiato nulla e ha mostrato un livello di crudeltà inaudito.
 
I 625 uomini della MONUC (sui 5.500 complessivamente dispiegati nel paese), di nazionalità uruguayana, hanno assistito impotenti al massacro dei civili, allo scempio dei cadaveri, agli stupri di massa delle donne, alla distruzione e al saccheggio delle abitazioni. Chiusi nel proprio quartiere generale non avevano né le forze né il mandato per intervenire contro forze dell’entità di 25.000-28.000 uomini. Il mandato prevedeva la sola protezione del personale dell’ONU, senza poter rispondere al fuoco. Due osservatori ONU disarmati sono stati uccisi e altri sette sono stati ricoverati per crisi nervose. Fonti cattoliche attendibili dicono poi che anche uomini dell’ONU abbiano preso parte al traffico illecito di alimenti, preziosi e persino dei medicinali destinati dall’Organizzazione mondiale della sanità agli ospedali.
 
La carneficina ha coinvolto anche la Chiesa cattolica. Raphael Ngona, sacerdote di etnia hema, è stato ucciso nella sua abitazione l’8 maggio, dopo che era stato uno dei primi ad avvertire gli osservatori ONU del massacro di hema avvenuto in aprile a Drodro (cf. Regno-att. 8,2003,275) e aveva ricevuto minacce dalle milizie lendu per questa denuncia. Due giorni dopo, a Nyakasanza, nella periferia di Bunia, altri due sacerdoti hema, Aime Ndjabu e Francis Mateso, sono stati uccisi sempre da lendu assieme a una ventina di parrocchiani. Poche ore prima di morire, p. Ndjabu aveva dichiarato all’agenzia MISNA: «Non mi sento più sicuro nella parrocchia. Dobbiamo scappare al più presto e fuggire dalla morte andando in una località segreta. Siamo costantemente minacciati da miliziani drogati e in un continuo stato d’isteria». Un quarto sacerdote è dato per disperso.
 
Le donne sono state colpite e umiliate con un’arma a basso costo e di cui tutte le truppe fanno ampio uso, lo stupro. Un’arma usando la quale non si rischia nulla, perché gode del privilegio dell’impunità, in una società in cui la sessualità è un argomento tabù. Secondo gli operatori sanitari che con unità mobili cercano d’incontrare le donne, lo stupro – che in questa regione è diventato quasi una malattia endemica – viene utilizzato come strumento sistematico di annientamento delle comunità. Non vi sono infatti rituali nella cultura per rimuovere l’onta dello stupro né dalle vittime né dalle loro famiglie, perché «lo stupro non esiste in questa cultura», afferma un’operatrice. E le donne che devono andare nei campi, al mercato, le più giovani a scuola, vivono nel terrore e coltivano la propria pena per lo più nel silenzio.
 
I morti sono stati abbandonati sulle strade, corpi mutilati e martoriati che portavano i segni di armi da fuoco ma anche di machete, altri accatastati in fosse comuni a cielo aperto; la Croce rossa ha cercato di dare una degna sepoltura a tutti. I sopravvissuti, circa 10.000, hanno cercato disperati rifugio negli insediamenti della MONUC, sia presso l’aeroporto sia nel centro della città; ma colonne lunghe dalle 30.000 alle 60.000 persone sono state avvistate a 100 miglia a sud-ovest di Bunia in cerca di scampo.
 
Con le armi del cinismo
Su richiesta quindi del Consiglio di sicurezza dell’ONU (risoluzione del 30 maggio), la Francia prima e poi l’Unione Europea hanno deciso l’invio di un contingente di 1.500 uomini (autorizzato il 5 giugno). Il 10 giugno è arrivato il primo contingente di 500 uomini della forza militare europea (composta da Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Svezia e Norvegia, cui si uniranno anche Canada e Sudafrica), la prima che l’Europa invia in autonomia dalla NATO. Il suo mandato è di proteggere i civili di Bunia e di rispondere al fuoco, se attaccati.
 
Al loro arrivo, è scoppiato l’entusiasmo della popolazione: di fronte alla fila di camionette militari armate di tutto punto che sono passate nel centro della città trasportando un centinaio di soldati seguiti da altrettanti giornalisti, bambini e vecchi esultanti sono stati ripresi dalle telecamere e le loro immagini trasmesse in tutto il mondo.
 
L’entusiasmo della popolazione si è però smorzato presto perché sono state ridimensionate le proporzioni dell’intervento nelle dichiarazioni dei responsabili militari, e perché al primo segnale di battaglia, nuovamente ripresa a Bunia, la forza si è ritirata nelle sue postazioni e i massacri e le sparizioni sono continuati.
 
Il generale Jean-Paul Thonier, comandante della forza, ha dichiarato infatti, poco dopo il suo arrivo: «Il mandato che mi è stato affidato dalle Nazioni Unite è limitato alla città di Bunia e all’aeroporto. Non ho pertanto il mandato di allontanarmi dalla città, né di separare le fazioni che si stanno combattendo». Tre sono quindi gli ambiti d’azione: «proteggere la popolazione, aiutare le agenzie umanitarie a compiere il loro lavoro e provvedere alla sicurezza della città di Bunia». Thonier ha poi chiamato alla collaborazione gli stati vicini: «I principali paesi della regione, Ruanda e Uganda, hanno risposto favorevolmente al dispiegamento di questa forza. E credo che questi due paesi abbiano ancora dei mezzi di pressione sulle fazioni che sono qui». Gli operatori umanitari chiedevano invece il disarmo delle fazioni, per poter realmente dare inizio alla distribuzione degli aiuti.
 
Le uccisioni sono proseguite anche attorno alla città di Bunia e si levava il fumo delle case che bruciavano. «Non è nel nostro mandato intervenire nella lotta tra gruppi armati, ma solo negli attacchi diretti contro i civili», hanno affermato i vertici militari. In realtà, dopo qualche giorno hanno dovuto ammettere che «oggi non siamo nella posizione di garantire la sicurezza della città, ma lo faremo. Per il momento la nostra principale preoccupazione è prendere posizione».
 
Ma dietro a un mandato ristretto vi sarebbe comunque un giudizio di sostanziale impossibilità di un intervento efficace nel conflitto. Secondo un documento dei militari francesi ottenuto dal quotidiano inglese The Guardian, la missione in Congo sarà di breve durata – il mandato scadrà il 1° settembre, quando si rafforzerà il contingente della MONUC –, localizzato e avrà un impatto irrilevante sul conflitto tribale: «L’operazione a Bunia è politicamente e militarmente ad alto rischio; molto delicata e complessa. La Francia non ha interessi specifici nell’area se non la solidarietà con la comunità internazionale».
 
A cinismo risponde cinismo, si potrebbe dire, delle milizie in lotta: «Siamo per la pace, ma non ci disarmeremo e non lasceremo la città per cui abbiamo combattuto e vinto», afferma il leader dell’Unione dei patrioti congolesi, Thomas Lubanga, di etnia hema, che ha il controllo della città. D’altra parte la distribuzione degli aiuti umanitari, dicono gli operatori, è impossibile se la città è armata. E alla popolazione che lamenta la ferocia con cui i lendu hanno ucciso molti civili, Lubanga risponde: «È colpa vostra, perché non vi siete uniti al nostro esercito». Ma se anche Bunia divenisse una zona demilitarizzata, il conflitto si sposterebbe a nord o a sud, anche fino a Kisangani, dicono gli osservatori.
 
Una società da ricostruire
È la storia stessa dell’ex Zaire che lo insegna: qui l’instabilità cronica è ormai il sistema. «Questi gruppi armati hanno più interesse nell’instabilità che nella stabilità, perché essi sono più capaci di trarre vantaggi dal proprio fucile che dall’affidare il proprio futuro politico al governo congolese» (cf. anche Regno-att. 16,2002,529), ha dichiarato il presidente dell’Istituto internazionale per gli studi strategici di Londra, Jonathan Stevenson. La guerra nell’Ituri non è di tipo tribale, ma una guerra per il potere sulle risorse della regione e per il governo centrale di Kinshasa. Il presidente Kabila, il Ruanda, l’Uganda e tutte le milizie da essi appoggiate vivono un’economia di guerra che ha portato l’ex Zaire alla catastrofe, capovolgendo il sistema di valori che regge una società: violenza al posto della tolleranza, terrore al posto del rispetto per i diritti umani. La larga disponibilità di armi leggere ha fatto il resto. Così il fatto che siano le famiglie congolesi stesse a mandare i propri bambini a combattere, o che le milizie li mettano in prima fila per sfruttare la sensibilità occidentale per i diritti umani, sono azioni sensate in una forma perversa di sistema sociale.
 
In queste condizioni un intervento in Ituri di forze militari sotto l’egida ONU o europea dovrebbe avere un mandato chiaro, ampio ma soprattutto dotato di una strategia per il futuro, in grado di avviare un circolo virtuoso di ricostruzione del tessuto sociale, come ha detto su The Guardian Victoria Brittain, ricercatrice associata alla London School of Economics. L’Occidente, affascinato dall’idea di un intervento militare giustificato ideologicamente dal «fermare i massacri» in Iraq come in Congo, non si rende conto della «complessità di queste guerre africane da sottosviluppo».
 
Questa forza militare, con il mandato attuale, potrà ottenere – a fatica – un attenuamento del conflitto, non una soluzione. 
 
articolo tratto da “Il Regno”