Sollicitudo rei socialis (Giovanni Paolo II – 1987) / Capitolo II

 

 
CAPITOLO II
 
NOVITÀ DELL’ENCICLICA “POPULORUM PROGRESSIO”
 
5. Già al suo apparire, il documento di Papa Paolo VI richiamò l’attenzione dell’opinione pubblica per la sua novità. Si ebbe modo di verificare, in concreto e con grande chiarezza, dette caratteristiche della continuità e del rinnovamento all’interno della dottrina sociale della Chiesa. Perciò, l’intento di riscoprire numerosi aspetti di questo insegnamento, mediante una rilettura attenta dell’Enciclica, costituirà il filo conduttore delle presenti riflessioni. Ma prima desidero soffermarmi sulla data di pubblicazione: l’anno 1967. Il fatto stesso che il Papa Paolo VI prese la decisione di pubblicare una sua Enciclica sociale in quell’anno, invita a considerare il documento in relazione al Concilio Ecumenico Vaticano II, che si era chiuso l’8 dicembre 1965.
 
6. In tale fatto dobbiamo vedere qualcosa di più che una semplice vicinanza cronologica. L’Enciclica Populorum Progressio si pone, in certo modo, quale documento di applicazione degli insegnamenti del Concilio. E ciò non tanto perché essa fa continui riferimenti ai testi conciliari, (8) quanto perché scaturisce dalla preoccupazione della Chiesa, che ispirò tutto il lavoro conciliare – in particolar modo la Costituzione pastorale Gaudium et spes – nel coordinare e sviluppare non pochi temi del suo insegnamento sociale. Possiamo affermare, pertanto, che l’Enciclica Populorum Progressio è come la risposta all’appello conciliare, col quale ha inizio la Costituzione Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è più genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». (9) Queste parole esprimono il motivo fondamentale che ispirò il grande documento del Concilio, il quale parte dalla constatazione dello stato di miseria e di sottosviluppo, in cui vivono milioni e milioni di esseri umani. Questa miseria e sottosviluppo sono, sotto altro nome, «le tristezze e le angosce» di oggi, «dei poveri soprattutto»: di fronte a questo vasto panorama di dolore e di sofferenza, il Concilio vuole prospettare orizzonti di gioia e di speranza. Al medesimo obiettivo punta l’Enciclica di Paolo VI, in piena fedeltà all’ispirazione conciliare.
 
7. Ma anche nell’ordine tematico l’Enciclica, attenendosi alla grande tradizione dell’insegnamento sociale della Chiesa, riprende in maniera diretta la nuova esposizione e la ricca sintesi, che il Concilio ha elaborato segnatamente nella Costituzione Gaudium et spes. Quanto ai contenuti e temi, riproposti dall’Enciclica, sono da sottolineare: la coscienza del dovere che ha la Chiesa, «esperta in umanità», di «scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo»; (10) la coscienza, egualmente profonda, della sua missione di «servizio», distinta dalla funzione dello Stato, anche quando essa si preoccupa della sorte delle persone in concreto; (11) il riferimento alle differenze clamorose nelle situazioni di queste stesse persone; (12) la conferma dell’insegnamento conciliare, eco fedele della tradizione secolare della Chiesa, circa la «destinazione universale dei beni»; (13) l’apprezzamento della cultura e della civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell’uomo, (14) senza trascurare di riconoscere i loro limiti; (15) infine, sul tema dello sviluppo, che è proprio dell’Enciclica, l’insistenza sul «dovere gravissimo», che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di «aiutare i Paesi in via di sviluppo». (16) Lo stesso concetto di sviluppo, proposto dall’Enciclica, scaturisce direttamente dall’impostazione che la Costituzione pastorale dà a questo problema. (17) Questi ed altri espliciti riferimenti alla Costituzione pastorale portano alla conclusione che l’Enciclica si presenta come applicazione dell’insegnamento conciliare in materia sociale al problema specifico dello sviluppo e del sottosviluppo dei popoli.
 
8. La breve analisi, ora fatta, ci aiuta a valutar meglio la novità dell’Enciclica, che si può precisare in tre punti. Il primo è costituito dal fatto stesso di un documento, emanato dalla massima autorità della Chiesa cattolica e destinato, a un tempo, alla stessa Chiesa e «a tutti gli uomini di buona volontà», (18) sopra una materia che a prima vista è solo economica e sociale: lo sviluppo dei popoli. Qui il termine «sviluppo» è desunto dal vocabolario delle scienze sociali ed economiche. Sotto tale profilo l’Enciclica Populorum Progressio si colloca direttamente nel solco dell’Enciclica Rerum Novarum, che tratta della «condizione degli operai». (19) Considerati superficialmente, entrambi i temi potrebbero sembrare estranei alla legittima preoccupazione della Chiesa vista come istituzione religiosa; anzi, lo «sviluppo» ancor più della «condizione operaia».
 
In continuità con l’Enciclica di Leone XIII, al documento di Paolo VI bisogna riconoscere il merito di aver sottolineato il carattere etico e culturale della problematica relativa allo sviluppo e, parimenti, la legittimità e la necessità dell’intervento in tale campo da parte della Chiesa. Con ciò la dottrina sociale cristiana ha rivendicato ancora una volta il suo carattere di applicazione della Parola di Dio alla vita degli uomini e della società così come alle realtà terrene, che ad esse si connettono, offrendo «principi di riflessione», «criteri di giudizio» e «direttrici di azione». (20) Ora, nel documento di Paolo VI si ritrovano tutti i tre elementi con un orientamento prevalentemente pratico, ordinato cioè alla condotta morale. Di conseguenza, quando la Chiesa si occupa dello «sviluppo dei popoli», non può essere accusata di oltrepassare il suo campo specifico di competenza e, tanto meno, il mandato ricevuto dal Signore.
 
9. Il secondo punto è la novità della Populorum Progressio, quale si rivela dall’ampiezza di orizzonte aperto a quella che comunemente è conosciuta come la «questione sociale». In verità, l’Enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni XXIII era già entrata in questo più ampio orizzonte (21) ed il Concilio se ne era fatto eco nella Costituzione Gaudium et spes. (22) Tuttavia, il magistero sociale della Chiesa non era ancora giunto ad affermare in tutta chiarezza che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, (23) né aveva fatto di questa affermazione, e dell’analisi che l’accompagna, una «direttrice di azione», come fa Papa Paolo VI nella sua Enciclica. Una simile presa di posizione così esplicita offre una grande ricchezza di contenuti, che è opportuno indicare.
 
Anzitutto, occorre eliminare un possibile equivoco. Riconoscere che la «questione sociale» abbia assunto una dimensione mondiale, non significa affatto che sia venuta meno la sua forza d ,incidenza, o che abbia perduto la sua importanza nell’ambito nazionale e locale. Significa, al contrario, che le problematiche nelle imprese di lavoro o nel movimento operaio e sindacale di un determinato Paese o regione non sono da considerare isole sparse senza collegamenti, ma che dipendono in misura crescente dall’influsso di fattori esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali. Purtroppo, sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molti di più di quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono. Siamo, dunque, di fronte a un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici da essi derivanti. E ciò avviene non per responsabilità delle popolazioni disagiate, né tanto meno per una specie di fatalità dipendente dalle condizioni naturali o dall’insieme delle circostanze. L’Enciclica di Paolo VI, nel dichiarare che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, si propone prima di tutto di segnalare un fatto morale, avente il suo fondamento nell’analisi oggettiva della realtà. Secondo le parole stesse dell’Enciclica, «ognuno deve prendere coscienza» di questo fatto, (24) appunto perché tocca direttamente la coscienza, ch’è fonte delle decisioni morali. In tale quadro, la novità dell’Enciclica non consiste tanto nell’affermazione, di carattere storico circa l’universalità della questione sociale quanto nella valutazione morale di questa realtà. Perciò, i responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei Paesi ricchi personalmente considerati, specie se cristiani, hanno l’obbligo morale – secondo il rispettivo grado di responsabilità – di tenere in considerazione, nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il sottosviluppo di tanti milioni di uomini. Con maggior precisione l’Enciclica paolina traduce l’obbligo morale come «dovere di solidarietà», (25) ed una tale affermazione, anche se nel mondo molte situazioni sono cambiate, ha oggi la stessa forza e validità di quando fu scritta.
 
D’altra parte, senza uscire dalle linee di questa visione morale, la novità dell’Enciclica consiste anche nell’impostazione di fondo, secondo cui la concezione stessa dello sviluppo, se lo si considera nella prospettiva dell’interdipendenza universale, cambia notevolmente. Il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano. (26)
 
10. Come terzo punto l’Enciclica fornisce un considerevole apporto di novità alla dottrina sociale della Chiesa nel suo complesso ed alla concezione stessa di sviluppo.
 
Questa novità è ravvisabile in una frase, che si legge nel paragrafo conclusivo del documento e che può esser considerata come la sua formula riassuntiva, oltre che la sua qualifica storica: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». (27) In realtà, se la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, è perché l’esigenza di giustizia può essere soddisfatta solo su questo stesso piano. Disattendere tale esigenza potrebbe favorire l’insorgere di una tentazione di risposta violenta da parte delle vittime dell’ingiustizia, come avviene all’origine di molte guerre. Le popolazioni escluse dalla equa distribuzione dei beni destinati originariamente a tutti, potrebbero domandarsi: perché non rispondere con la violenza a quanti ci trattano per primi con la violenza? E se si esamina la situazione alla luce della divisione del mondo in blocchi ideologici – già esistente nel 1967 – e delle conseguenti ripercussioni e dipendenze economiche e politiche, il pericolo risulta ben maggiore.
 
A questa prima considerazione sul drammatico contenuto della formula dell’Enciclica se ne aggiunge un’altra, a cui lo stesso documento fa allusione: (28) come giustificare il fatto che ingenti somme di danaro che potrebbero e dovrebbero essere destinate a incrementare lo sviluppo dei popoli, sono invece utilizzate per l’arricchimento di individui o di gruppi, ovvero assegnate all’ampliamento degli arsenali di armi, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, sconvolgendo così le vere priorità? Ciò è ancor più grave attese le difficoltà che non di rado ostacolano il passaggio diretto dei capitali destinati a portare aiuto ai Paesi in condizione di bisogno. Se «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», la guerra e i preparativi militari sono il maggior nemico dello sviluppo integrale dei popoli.
 
In tal modo, alla luce dell’espressione di Papa Paolo VI, siamo invitati a rivedere il concetto di sviluppo, che non coincide certamente con quello che si limita a soddisfare le necessità materiali mediante la crescita dei beni, senza prestare attenzione alle sofferenze dei più e facendo dell’egoismo delle persone e delle Nazioni la principale motivazione. Come acutamente ci ricorda la Lettera di san Giacomo, è da qui che «derivano le guerre e le liti. […] Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere» (Gc 4,1). Al contrario, in un mondo diverso, dominato dalla sollecitudine per il bene comune di tutta l’umanità, ossia dalla preoccupazione per lo «sviluppo spirituale e umano di tutti», anziché dalla ricerca del profitto particolare, la pace sarebbe possibile come frutto di una «giustizia più perfetta tra gli uomini». (29)
 
Anche questa novità dell’Enciclica ha un valore permanente ed attuale, considerata la mentalità di oggi che è così sensibile all’intimo legame esistente tra il rispetto della giustizia e l’instaurazione della vera pace.