Stallo sulla via della pace


L’ottimismo che si era diffuso nelle cancellerie occidentali davanti ai primi atti di Joseph Kabila a Kinshasa, dopo l’uccisione a tradimento di suo padre Lauren Desiré (cf. Regno-att. 4,2001,120), sembra oggi, a distanza di otto mesi, eccessivo e prematuro, anche se non del tutto ingiustificato. Il giovanotto trentenne (il più giovane capo di stato africano), considerato inizialmente, soprattutto all’interno del paese, un fragile fantoccio nelle mani del gruppo di potere con cui Kabila padre aveva retto le sorti del Congo negli ultimi due anni e mezzo, si sta rivelando più solido e abile di quanto fosse lecito immaginare e appare sinceramente votato alla causa della pace, deciso a mettere fine alla spirale di violenze e devastazioni degli ultimi tre anni.

 
Legittimità democratica
 
Il problema della legittimità democratica del suo potere, posto con forza tanto dalle fazioni ribelli quanto dai partiti dell’opposizione politica non armata, per il momento non si pone: Kabila jr dichiara continuamente che, prima di convocare le tanto attese libere elezioni che già suo padre aveva promesso e mai concesso al popolo congolese, occorre riportare la pace e mettere fine all’aggressione da parte dei paesi nemici (Ruanda e Uganda) che, dando manforte ai ribelli e occupando militarmente la metà orientale del paese, ne hanno spezzato l’integrità territoriale.
 
In verità, il processo di pacificazione che il giovane Kabila, a differenza di suo padre, sembrava determinato a portare fino in fondo si trova tuttora in una fase di stallo di cui è difficile intravedere la fine. Esiste un mediatore riconosciuto da tutte le parti belligeranti, il presidente dello Zambia Chiluba. Esiste anche un facilitatore, l’ex presidente botswanese Ketumile Masire, che il 20 agosto scorso ha convocato le parti a Gaborone (capitale del Botswana) per definire le modalità del ritiro degli eserciti stranieri dal territorio congolese, dato che è questa la condizione posta sia dal governo di Kinshasa sia dai ribelli per potere avviare il dialogo intercongolese (il tavolo negoziale che dovrebbe mettere fine alla lacerazione interna del paese).
 
Ma al momento l’accordo sul ritiro delle truppe non si trova. Già diversi mesi fa gli eserciti occupanti avevano accettato di ritirarsi di 15 chilometri dalle rispettive posizioni, come previsto dagli accordi di Lusaka (agosto 1999). Il presidente ugandese Museveni aveva addirittura annunciato l’intenzione di lasciare del tutto il territorio congolese, mentre il Ruanda aveva arretrato di 200 chilometri, 185 più di quelli previsti. Ma lo scetticismo con cui molti congolesi avevano accolto le buone intenzioni degli invasori si è rivelato giustificato: è vero che i soldati ruandesi si sono ritirati, ma solo dal fronte sud (il ricco Katanga), per concentrare tutte le energie sull’occupazione della vasta regione orientale del Kivu, ormai annessa di fatto al limitrofo Ruanda. Lì, il governo tutsi presieduto da Paul Kagame giustifica la permanenza di proprie truppe sul territorio congolese con l’accusa mossa al governo di Kinshasa di foraggiare e spingere verso il territorio ruandese colonne sbandate di miliziani hutu Interahamwe, che metterebbero a repentaglio la precaria stabilità interna del paese.
 
D’altra parte, molti ufficiali ugandesi, nonostante il ritiro di facciata, continuano a dare manforte ai gruppi ribelli del Fronte per la liberazione del Congo, che occupano un’ampia fetta di territorio nel nord-est del paese, a ridosso del confine con l’Uganda. Tuttavia, dopo due anni di tensioni e accuse di reciproca destabilizzazione, i governi di Uganda e Ruanda si sono recentemente riavvicinati, e lo scenario geo-politico nella zona dei Grandi laghi potrebbe registrare a breve dei mutamenti sostanziali.
 
La stanchezza della popolazione
 
Sul piano interno, Kabila jr deve intanto fare i conti con la crescente stanchezza della popolazione, vessata dalla violenza e da una povertà ormai endemica. Il sistema dei trasporti è al collasso; le telecomunicazioni non funzionano; il cibo in molte parti del paese viene solo dagli aiuti umanitari occidentali; manca continuamente la corrente elettrica. A Kinshasa un docente universitario o un magistrato guadagnano 20 dollari al mese, mentre un militare ne prende appena 10. Secondo stime della Banca mondiale citate dalla rivista Jeune Afrique, il PIL del paese supera di poco gli 8 miliardi di dollari (erano 15 miliardi nel 1980), mentre il debito estero ammonta a 13,4 miliardi di dollari.
 
Il giovane presidente confida molto negli investimenti e nel sostegno finanziario dell’ex madrepatria, il Belgio, e dell’Unione Europea, che ha però posto come condizione per gli stanziamenti l’avvio del dialogo intercongolese. La posizione occidentale sembra ragionevole, ma, come ha dichiarato lo stesso Kabila in un’intervista riportata dall’Herald Tribune (25.8.2001), il rischio è che “quando arriverà la pace, la gente sarà tutta morta di fame”. La politica attendista che privilegia gli aiuti umanitari a breve termine sugli investimenti di lunga durata rischia di creare nella gente una mentalità passiva di dipendenza, invece che stimolarne l’iniziativa privata.
 
Quanto alla democratizzazione del paese, le buone intenzioni manifestate a parole da Joseph Cabila confliggono con la mancata liberalizzazione della vita politica e la concentrazione nelle proprie mani di tutti i poteri. Amnesty International ha pubblicato di recente un rapporto allarmante sulle violenze nelle carceri e gli arresti extragiudiziali che si contano ancora numerosi nel paese (anche se sono diminuiti rispetto al passato). È anche vero che i partiti d’opposizione, negando al neo presidente qualunque legittimità, dichiarano di non aspettare altro che l’apertura del dialogo intercongolese e rifiutano per il momento di “compromettersi” con il governo messo in piedi da Kabila, in funzione da metà aprile.
 
Lo stato di grazia che sembrava essersi creato con l’avvento al potere del figlio di Kabila si è dunque incrinato. L’incertezza e l’esasperazione continuano a regnare sovrane nella Repubblica democratica del Congo, come hanno ribadito anche i vescovi in un messaggio diffuso al termine della loro Assemblea plenaria, lo scorso 7 luglio: “La situazione che abbiamo davanti è ancora caratterizzata dall’incertezza e da molte sofferenze dovute alla guerra che perdura”. L’unico segno di speranza, secondo i vescovi, è dato dall’avvio del dialogo intercongolese, da essi definito “un nuovo incontro con la storia, una necessità inevitabile e urgente”. Ma occorre prima di tutto che le truppe straniere si ritirino dal Congo e che tutti i negoziatori mettano il bene della nazione davanti agli interessi di parte.
 
articolo tratto da “Il Regno”