Sud Sudan e Uganda, il virus rallenta le risposte umanitarie

A inizio marzo, quando l’epidemia di Covid-19 atterriva già Italia ed Europa, l’Africa aveva solo molte domande. Un lunedì come tanti in aeroporto a Nairobi, una valigia e i documenti necessari per viaggiare per due settimane tra Sud Sudan e Uganda. Destinazione, un incontro con la Caritas nazionale e con le diocesi a Juba, la capitale del Sud Sudan, poi in Uganda una visita al settlement (insediamento, in Uganda non si parla mai di campi profughi) di Palorinya. Entrambe le visite, legate al monitoraggio dei progetti che Caritas Sud Sudan e Caritas Uganda stanno conducendo con il supporto della rete di Caritas Internationalis, e in essa di Caritas Italiana, che partecipa con un contributo derivante dall’8xmille alla Chiesa Cattolica.
Entrambi gli interventi di risposta emergenziale si focalizzano sulla complessa crisi sudsudanese. Che ha origini lontane nel tempo e ha conosciuto diverse fasi di sviluppo, che hanno portato prima all’indipendenza dal Sudan, con lo storico referendum del 2011, poi ad un conflitto interno scatenato dai due storici rivali Salva Kiir e Riek Machar. Ne sono seguiti un processo di pace lungo, più volte naufragato e poi ripreso a singhiozzo, e l’intervento di papa Francesco, con diversi appelli, fino allo storico incontro in Vaticano ad aprile 2019. Tra febbraio e marzo 2020, finalmente, la formazione di un governo di unità nazionale, con Salva Kiir presidente, Riek Machar primo vicepresidente (insieme ad altri 4) e la nomina di 35 ministri, mentre quella dei governatori rimane in sospeso, e continua a generare instabilità.
La crisi prolungata del Sud Sudan negli anni ha generato milioni di sfollati interni e profughi (Unhcr registrava al 30 aprile 2020 2.254.316 rifugiati). E l’Uganda è il paese africano che accoglie il maggior numero di sfollati, con una stima del 39,1% del totale dei profughi in fuga dalla poveriera sudsudanese (Unhcr, 30 aprile 2020).
 

Prime speranze per la pace
In una situazione già così fragile, quale impatto ha avuto lo scoppio della pandemia di Covid-19? Sia in Sud Sudan sia in Uganda inizialmente si è avvertita un’attenzione particolare ai fatti che riguardavano la Cina, l’Italia e pian piano tutta l’Europa. Quindi è subentrata una preoccupazione sempre crescente, focalizzata sulla reale possibilità di espansione del virus, con i primi casi riscontrati in alcuni paesi africani, fino al definitivo scoramento per i primi casi all’interno dei confini nazionali. Immediate sono state le reazioni, tante le domande, diffusa anche la condivisione di buone pratiche. Nondimeno, gravi sono state le conseguenze, facilmente pronosticabili.
A Juba, capitale del Sud Sudan, i controlli erano più accurati in aeroporto, condotti dall’Oms. Rispetto al confinante Kenya, determinate e rafforzate misure erano già in essere per far fronte a Ebola: tracciamento degli ultimi spostamenti fuori e dentro i confini nazionali e della sintomatologia pregressa con un’autocertificazione, misurazione della temperatura e primi distanziamenti più o meno controllati, almeno in aeroporto. Molte domande peraltro riguardavano la situazione italiana, ispirate dalla curiosità e dal timore per la veloce e preoccupante diffusione del virus; in alcune occasioni, il viaggiatore italiano poteva avvertire persino una certa prudenza nello stabilire relazionai con lui. In generale, però, forte era soprattutto la preoccupazione per le possibili conseguenze sulla capacità del sistema nazionale di rispondere a un’epidemia come quella che stava mettendo a dura prova paesi ben più ricchi e attrezzati. Ancora più forte, la preoccupazione su come fare a raggiungere il maggior numero possibile di persone per spiegare, formare e fare prevenzione. Bisogna infatti considerare la difficoltà di viaggiare in Sud Sudan, per raggiungere comunità lontane e isolate, ma anche il problema di riuscire a seguire tutti gli spostamenti di una popolazione ormai abituata a spostarsi a seconda dell’andamento del conflitto e pronta a lasciare tutto per cercare nuovi ripari al primo riacutizzarsi delle violenze, fenomeno che rende elevatissimo il numero degli sfollati interni.
La pandemia si affacciava peraltro in Sud Sudan in un momento assai delicato, in cui il processo di pace cominciava effettivamente a dare speranze e la progressiva definizione del tanto auspicato governo di transizione poteva far ben sperare. D’altro canto, la popolazione civile continuava a subire attacchi e soprusi riconducibili alla criminalità. Però, nelle prime settimane successive alla dichiarazione della pandemia da parte dell’Oms, in Sud Sudan non si sono registrati casi di positivi. Da subito sono state attivate misure restrittive, con l’obbligo di quarantena a ogni nuovo ingresso nel paese, la sospensione dei voli internazionali, la chiusura delle scuole e il divieto di riunioni, assemblee e assembramenti. Dal 23 marzo e fino a poche settimane fa, nel paese sono stati chiusi il traffico aereo e via terra, ad esclusione dei viaggi necessari per effettuare operazioni di emergenza anche non legate a Covid-19.
 
 
Dalla mano alla bocca
Tempestivo e generoso è stato anche l’impegno delle organizzazioni non governative e delle Chiese locali, finalizzato a lavorare per la prevenzione. Un grande numero di comunità sono state raggiunte con le prime indicazioni di base grazie alle diffuse radio locali. Non è stato facile, soprattutto, reperire materiale in tutti i dialetti. E poi il sistema sanitario nazionale, fragile per definizione, dispone di un solo laboratorio per i test, pochissimi i posti in terapia intensiva. Tra le difficoltà che sono apparse evidenti sin da subito, il fatto di dover continuare a rispondere a una crisi complessa, preesistente e duratura, dovendo affrontare le nuove limitazioni logistiche e di distribuzione di beni (cibo, ripari, utensili di base) già di per sé non facilmente disponibili prima sui mercati locali, e destinati con il lockdown a veder lievitare i prezzi. Tutte le restrizioni in atto, seppur doverose per limitare il diffondersi del virus, hanno insomma rallentato tutte le operazioni della risposta umanitaria alla crisi politica e socio-economico che caratterizzano il paese.
Rallentato la risposta, e acuito i bisogni. I missionari hanno raccontato che sin da subito si è registrato un aumento delle persone che raggiungono dispensari, ospedali, scuole e chiese, per chiedere un aiuto alimentare. La maggior parte della popolazione sud sudanese non ha fonti di reddito; una gran parte dipendeva già, come in molti paesi africani, da piccoli lavori giornalieri, basati sull’economia informale, che alcuni definiscono hand to mouth, dalla mano alla bocca. Il sistema economico, già al collasso, con la chiusura delle frontiere (soprattutto con il vicino Uganda, dove avevano luogo molte operazioni di approvvigionamento e rifornimento) ha conosciuto una imponente battuta di arresto.
 
 
Confini chiusi, e i rifugiati?
Le frontiere chiuse con l’Uganda hanno avuto pesanti ripercussioni economiche per il Sud Sudan. E forse ancora peggiori, anche se è difficile quantificare le conseguenze, sul flusso continuo di rifugiati tra i due paesi. L’Uganda è stato uno dei primi paesi africani a mettere in atto misure restrittive, dopo aver registrato e denunciato i primi casi. Già a inizio marzo i controlli all’aeroporto della capitale Kampala si erano fatti più stretti e più accurati per i passeggeri provenienti da Cina e Italia: code speciali, riservati ai cittadini dei due paesi, prima di arrivare all’ufficio immigrazione. Obbligatoria, inoltre, la quarantena a proprie spese per tutti i passeggeri in arrivo da scali europei o cinesi.
L’Uganda, peraltro, è sempre stato uno dei paesi in prima linea nell’accoglienza dei rifugiati (in particolare da Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan). È tuttora difficile capire cosa sia potuto succedere alle persone che hanno intrapreso un viaggio lungo per cercare di scappare dal travagliato Sud Sudan e sono arrivate al confine con l’Uganda dopo il 18 marzo. Probabilmente non erano a conoscenza della chiusura dei confini prima di partire e hanno tentato lo stesso di attraversarli, oppure ci hanno sperato fino all’ultimo.
Riguardo ai rifugiati già in Uganda, seguendo le indicazioni delle autorità di governo, di concerto con l’Oms, tutte le attività hanno subito un arresto, in tutti i settori. Nei settlement si è cercato di rafforzare l’accesso all’acqua e riorganizzare gli spazi. Tutti i progetti educativi, come quello portato avanti da Caritas a Palorinya, nel nord, sono stati e rimangono sospesi. Da poche settimane hanno ripreso solo le attività di assistenza alimentare, mentre stanno ripartendo lentamente quelle legate al microcredito.
La presenza di tanti rifugiati aveva peraltro generato nuovi circuiti economici. Già di per sé precari, ma messi in crisi dalle misure anti-pandemia: difficile, soprattutto, ripensare e riadattare gli spazi dei piccoli mercati, dove i rifugiati lentamente avevano messo in piedi piccole attività economiche a integrazione degli aiuti ricevuti. Integrazione indispensabile non solo dal punto di vista economico, ma anche socio-psicologico. E infatti l’Unhcr ha già denunciato l’aumento di episodi di violenza e alcuni suicidi negli insediamenti dei rifugiati.
Le misure preventive adottate in Uganda sono simili a quelle decise dal Sud Sudan, molto basate sulla prevenzione. Sono stati rafforzati i collegamenti via radio e telefono, mentre difficile, in entrambi i paesi, è garantire e far rispettare le misure di distanziamento sociale, data l’alta concentrazione di persone nei pochi luoghi sicuri dai conflitti e dotati di adeguati approvvigionamenti. I punti di raccolta dove avvengono le distribuzioni di beni primari, soprattutto cibo negli insediamenti per rifugiati e sfollati, così come i punti di accesso all’acqua, sono altrettanti luoghi di moltiplicazione dell’esposizione al rischio, ma allo stesso tempo offrono risposte imprescindibile a bisogni umanitari e materiali di base. Chi ha fame o sete, non ha molte alternative, se non accettare il rischio di contrarre il virus.
Oggi, anche a maggio, sia in Sud Sudan che in Uganda i casi di persone positive al virus Covid-19 sono in aumento; il 20 maggio avevano raggiunto in Sud Sudan quota 473 e in Uganda quota 264, con una accelerazione evidente nelle ultime settimane, soprattutto in Sud Sudan, che aveva registrato il primo caso solo poche settimane prima. Purtroppo resta il dubbio se i numeri siano reali. Ma c’è ragione di credere che siano molto più alti.
 
 
Nicoletta Sabbetti