Populorum progressio (Paolo VI – 1967) Seconda parte / Pagina 2


2. Equità nelle relazioni commerciali
 
56. Gli sforzi, anche considerevoli, che vengono dispiegati per aiutare sul piano finanziario e tecnico i paesi in via di sviluppo, sarebbero illusori, se il loro risultato fosse parzialmente annullato dal gioco delle relazioni commerciali tra paesi ricchi e paesi poveri. La fiducia di questi ultimi verrebbe profondamente scossa se avessero l’impressione che si toglie loro con una mano quel che si porge con l’altra.
 
Distorsione crescente, al di là del liberalismo
 
57. Le nazioni altamente industrializzate esportano in realtà soprattutto manufatti, mentre le economie poco sviluppate non hanno da vendere che prodotti agricoli e materie prime. Grazie al progresso tecnico, i primi aumentano rapidamente di valore e trovano sufficienti sbocchi sui mercati, mentre, per contro, i prodotti primari provenienti dai paesi in via di sviluppo subiscono ampie e brusche variazioni di prezzo, che li mantengono ben lontani dal plusvalore progressivo dei primi. Di qui le grandi difficoltà cui si trovano di fronte le nazioni da poco industrializzate, quando devono contare sulle esportazioni per equilibrare le loro economie e realizzare i loro piani di sviluppo. Così finisce che i poveri restano ognora poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi.
 
58. Ciò significa che la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali. I suoi vantaggi sono certo evidenti quando i contraenti si trovino in condizioni di potenza economica non troppo disparate: allora è uno stimolo al progresso e una ricompensa agli sforzi compiuti. Si spiega quindi come i paesi industrialmente sviluppati siano portati a vedervi una legge di giustizia. La cosa cambia, però, quando le condizioni siano divenute troppo disuguali da paese a paese: i prezzi che si formano «liberamente» sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa.
 
Giustizia dei contratti a livello dei popoli
 
59. L’insegnamento di Leone XIII nella Rerum novarum mantiene la sua validità: il consenso delle parti, se esse versano in una situazione di eccessiva disuguaglianza, non basta a garantire la giustizia del contratto, e la legge del libero consenso rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale.(47) Ciò che era vero rispetto al giusto salario individuale lo è anche rispetto ai contratti internazionali: un’economia di scambio non può più poggiare esclusivamente sulla legge della libera concorrenza, anch’essa troppo spesso generatrice di dittatura economica. La libertà degli scambi non è equa se non subordinatamente alle esigenze della giustizia sociale.
 
Misure da prendere
 
60. Del resto, i paesi sviluppati l’hanno essi stessi ben compreso, dal momento che s’adoperano a ristabilire con misure adeguate, all’interno delle rispettive economie, un equilibrio che la concorrenza abbandonata a se stessa tende a compromettere. Per cui li vediamo spesso sostenere la loro agricoltura mediante sacrifici imposti ai settori economici più favoriti. Vediamo pure come, per sostenere le relazioni commerciali che si sviluppano tra loro, particolarmente all’interno di un mercato comune, la loro politica finanziaria, fiscale e sociale si sforzi di ridare a delle industrie concorrenti, disugualmente prospere, condizioni di ristabilita competitività.
 
Convenzioni internazionali
 
61. Non è lecito usare in questo campo due pesi e due misure. Ciò che vale nell’ambito di un’economia nazionale, ciò che è ammesso tra paesi sviluppati, vale altresì nelle relazioni commerciali tra paesi ricchi e paesi poveri. Non che si debba o voglia prospettare l’abolizione del mercato basato sulla concorrenza: si vuol soltanto dire che occorre però mantenerlo dentro limiti che lo rendano giusto e morale, e dunque umano. Nel commercio tra economie sviluppate e in via di sviluppo, le situazioni di partenza sono troppo squilibrate e le libertà reali troppo inegualmente distribuite. La giustizia sociale impone che il commercio internazionale, se ha da essere cosa umana e morale, ristabilisca tra le parti almeno una relativa uguaglianza di possibilità. Quest’ultima non può essere che un traguardo a lungo termine. Ma per raggiungerlo occorre fin d’ora creare una reale uguaglianza nelle discussioni e nelle trattative. Anche questo è un campo nel quale convenzioni internazionali a raggio sufficientemente vasto sarebbero utili, in quanto capaci di introdurre norme generali in vista di regolarizzare certi prezzi, di garantire certe produzioni, di sostenere certe industrie nascenti. Ognuno vede come un siffatto sforzo comune verso una maggiore giustizia nelle relazioni internazionali tra i popoli arrecherebbe ai paesi in via di sviluppo un aiuto positivo, con effetti non solo immediati, ma duraturi.
 
Ostacoli da superare: nazionalismo e razzismo
 
62. Altri ostacoli si oppongono all’edificazione di un mondo più giusto e più strutturato secondo una solidarietà universale: intendiamo parlare del nazionalismo e del razzismo. È naturale che delle comunità da poco pervenute all’indipendenza politica siano gelose di un’unità nazionale ancora fragile, e si preoccupino di proteggerla. È pure normale che nazioni di vecchia cultura siano fiere del patrimonio, che hanno avuto in retaggio dalla loro storia. Ma tali sentimenti legittimi devono essere sublimati dalla carità universale che abbraccia tutti i membri della famiglia umana. Il nazionalismo isola i popoli contro il loro vero bene; e risulterebbe particolarmente dannoso là dove la fragilità delle economie nazionali esige invece la messa in comune degli sforzi, delle conoscenze e dei mezzi finanziari, onde realizzare i programmi di sviluppo e intensificare gli scambi commerciali e culturali.
 
63. Il razzismo non è appannaggio esclusivo delle nazioni giovani, dove esso si dissimula talvolta sotto il velo delle rivalità di clan e di partiti politici, con grande pregiudizio della giustizia e mettendo a repentaglio la pace civile. Durante l’èra coloniale ha spesso imperversato tra coloni e indigeni, creando ostacoli a una feconda comprensione reciproca e provocando rancori che sono la conseguenza di reali ingiustizie. Esso costituisce altresì un ostacolo alla collaborazione tra nazioni sfavorite e un fermento generatore di divisione e di odio nel seno stesso degli stati, quando, in spregio dei diritti imprescrittibili della persona umana, individui e famiglie si vedono ingiustamente sottoposti a un regime d’eccezione, a causa della loro razza o del loro colore.
 
Verso un mondo solidale
 
64. Una tale situazione, così gravida di minacce per l’avvenire, ci affligge profondamente. Conserviamo tuttavia la speranza che un bisogno più sentito di collaborazione, un sentimento più acuto della solidarietà finiranno con l’avere la meglio sulle incomprensioni e sugli egoismi. Speriamo che i paesi a meno elevato livello di sviluppo sappiano trarre profitto da buoni rapporti di vicinanza coi paesi confinanti, allo scopo di organizzare tra loro, sopra aree territoriali più vaste, zone di sviluppo concertato: stabilendo programmi comuni, coordinando gli investimenti, distribuendo le possibilità di produzione, organizzando gli scambi. Speriamo anche che le organizzazioni multilaterali e internazionali trovino, attraverso una necessaria organizzazione, le vie che permetteranno ai popoli tuttora in via di sviluppo di uscire dal punto morto in cui paiono dibattersi come prigionieri e di rinvenire da se stessi, nella fedeltà al genio di ciascuno, i mezzi del loro progresso sociale e umano.
 
Tutti i popoli artefici del loro destino
 
65. Perché è proprio a questo che bisogna arrivare. La solidarietà mondiale, sempre più efficiente, deve consentire a tutti i popoli di divenire essi stessi gli artefici del loro destino. Il passato è stato troppo spesso contrassegnato da rapporti di forza tra nazione e nazione: venga finalmente il giorno in cui le relazioni internazionali portino il segno del rispetto vicendevole e dell’amicizia, dell’interdipendenza nella collaborazione, e della promozione comune sotto la responsabilità di ciascuno. I popoli più giovani e più deboli reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione d’un mondo migliore, più rispettoso dei diritti e della vocazione di ciascuno. Il loro appello è legittimo: a ognuno d’intenderlo e di rispondervi.
 
3. La carità universale
 
66. Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli.
 
Doveri connessi con l’ospitalità
 
67. Noi non insisteremo mai abbastanza sul dovere dell’accoglienza – dovere di solidarietà umana e di carità cristiana – che incombe sia alle famiglie, sia alle organizzazioni culturali dei paesi ospitanti. Occorre, soprattutto per i giovani, moltiplicare le famiglie e i luoghi atti ad accoglierli. Ciò innanzitutto allo scopo di proteggerli contro la solitudine, il sentimento d’abbandono, la disperazione, che minano ogni capacità di risorsa morale, ma anche per difenderli contro la situazione malsana in cui si trovano, che li forza a paragonare l’estrema povertà della loro patria col lusso e lo spreco donde sono circondati. E ancora: per salvaguardarli dal contagio delle dottrine eversive e dalle tentazioni aggressive cui li espone il ricordo di tanta «miseria immeritata».(48) Infine soprattutto per dare a loro, insieme con il calore d’una accoglienza fraterna, l’esempio d’una vita sana, il gusto della carità cristiana autentica e fattiva, lo stimolo ad apprezzare i valori spirituali.
 
Dramma dei giovani studenti e dei lavoratori emigrati
 
68. È doloroso pensarlo: numerosi giovani, venuti in paesi più progrediti per apprendervi la scienza, la competenza e la cultura che li renderanno più atti a servire la loro patria, vi acquistano certo una formazione di alta qualità, ma finiscono in non rari casi col perdervi il senso dei valori spirituali che spesso erano presenti, come un prezioso patrimonio, nelle civiltà che li avevano visti crescere.
 
69. La stessa accoglienza è dovuta ai lavoratori emigrati che vivono in condizioni spesso disumane, costretti a spremere il proprio salario per alleviare un po’ le famiglie rimaste nella miseria sul suolo natale.
 
Senso sociale
 
70. La nostra seconda raccomandazione è per quelli che in forza della loro attività economica sono chiamati in paesi recentemente aperti all’industrializzazione: industriali, commercianti, capi o rappresentanti di grandi imprese. Si tratta magari di uomini che si dimostrano, nel loro paese, non sprovvisti di senso sociale: perché dovrebbero regredire ai principi disumani dell’individualismo quando operano in paesi meno sviluppati? La loro condizione di superiorità deve al contrario spronarli a farsi iniziatori del progresso sociale e della promozione umana, là dove sono condotti dai loro impegni economici. Il loro stesso senso dell’organizzazione dovrà ad essi suggerire il modo migliore per valorizzare il lavoro indigeno, formare operai qualificati, preparare ingegneri e dirigenti, lasciare spazio alla loro iniziativa, introdurli progressivamente nei posti più elevati, preparandoli così a condividere, in un avvenire meno lontano, le responsabilità della direzione. Che la giustizia, almeno, regoli sempre le relazioni tra capi e subordinati. Che esse siano rette da contratti regolari con obblighi reciproci. Infine, che nessuno, qualunque sia la sua condizione, resti ingiustamente in balìa dell’arbitrio.
 
Missione di sviluppo
 
71. Sempre più numerosi, e ce ne rallegriamo, sono gli esperti inviati in missione di sviluppo ad opera di istituzioni internazionali o bilaterali o di organismi privati. «Essi non devono comportarsi da padroni, ma da assistenti e da collaboratori».(49) Una popolazione intuisce subito se l’aiuto che vengono a portare è dato con passione oppure no, se sono lì semplicemente per applicare delle tecniche o non anche per dare all’uomo tutto il suo valore. Il loro messaggio rischia di non essere accolto, se non è accompagnato da uno spirito d’amore fraterno.
 
Qualità degli esperti 
 
72. Alla competenza tecnica indispensabile, bisogna dunque accoppiare i segni autentici d’un amore disinteressato. Spogli d’ogni superbia nazionalistica come d’ogni parvenza di razzismo, gli esperti devono imparare a lavorare in stretta collaborazione con tutti. Essi devono sapere che la loro competenza non conferisce loro una superiorità in tutti i campi. La civiltà nella quale si sono formati contiene indubbiamente degli elementi d’umanesimo universale, ma non è né unica né esclusiva, e non può essere importata senza adattamenti. I responsabili di queste missioni devono preoccuparsi di scoprire, insieme con la sua storia, le caratteristiche e le ricchezze culturali del paese che li accoglie. Si stabilirà così un avvicinamento che risulterà fecondo per ambedue le civiltà.
 
Dialoghi di civiltà
 
73. Tra le civiltà, come tra le persone, un dialogo sincero è di fatto creatore di fraternità. L’impresa dello sviluppo ravvicinerà i popoli, nelle realizzazioni portate avanti con uno sforzo comune, se tutti, a cominciare dai governi e dai loro rappresentanti, e fino al più umile esperto, saranno animati da uno spirito di amore fraterno e mossi dal desiderio sincero di costruire una civiltà fondata sulla solidarietà mondiale. Un dialogo centrato sull’uomo, e non sui prodotti e sulle tecniche, potrà allora aprirsi. Un dialogo che sarà fecondo, se arrecherà ai popoli che ne fruiscono i mezzi di elevarsi e di raggiungere un più alto grado di vita spirituale; se i tecnici sapranno farsi educatori e se l’insegnamento trasmesso porterà il segno d’una qualità spirituale e morale così elevata da garantire uno sviluppo che non sia soltanto economico, ma umano. Passata la fase dell’assistenza, le relazioni in tal modo instaurate perdureranno, e non v’è chi non scorga di quale importanza esse saranno per la pace del mondo.
 
Appello ai giovani
 
74. Molti giovani hanno già risposto con ardore e sollecitudine all’appello di Pio XII per un laicato missionario.(50) Numerosi sono anche quelli che si sono spontaneamente messi a disposizione di organismi, ufficiali o privati, di collaborazione con i popoli in via di sviluppo. Ci rallegriamo nell’apprendere che in talune nazioni il «servizio militare» può essere scambiato in parte con un «servizio civile», un «servizio puro e semplice», e benediciamo tali iniziative e le buone volontà che vi rispondono. Possano tutti quelli che si richiamano a Cristo intendere il suo appello: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, prigioniero e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36). Nessuno può rimanere indifferente alla sorte dei suoi fratelli tuttora immersi nella miseria, in preda all’ignoranza, vittime dell’insicurezza. Come il cuore di Cristo, il cuore del cristiano deve muoversi a compassione di questa miseria: «Ho compassione di questa folla» (Mc 8,2).
 
Preghiera e azione
 
75. La preghiera di tutti deve salire con fervore verso l’Onnipotente, perché l’umanità, dopo aver preso coscienza di così grandi mali, si dedichi con intelligenza e fermezza ad abolirli. A questa preghiera deve corrispondere l’impegno risoluto di ciascuno, nella misura delle sue forze e delle sue possibilità, nella lotta contro il sottosviluppo. Possano le persone, i gruppi sociali e le nazioni darsi fraternamente la mano, il forte aiutando il debole a crescere, mettendo in questo tutta la sua competenza, il suo entusiasmo e il suo amore disinteressato. Più che chiunque altro, colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente. Operatore di pace, «egli percorrerà la sua strada, accendendo la gioia e versando la luce e la grazia nel cuore degli uomini su tutta la superficie della terra, facendo loro scoprire, al di là di tutte le frontiere, dei volti di fratelli, dei volti di amici».(51)
 
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